di FRANCO CIMINO
Chi mi conosce sa che io non amo fare citazioni e che non mi piacciono coloro che spesse volte le utilizzano pensando di rafforzare il proprio pensiero. Questa volta, però, voglio farne ricorso in senso più largo. Utilizzo, infatti, un intero pensiero di un potente intellettuale che ha espresso in modo chiaro ed efficace un principio a cui da tempo affido la mia formazione di uomo e di operatore politico e culturale.
Lui è il mitico Fabrizio De André. Il pensiero proviene da una lunga intervista, forse l’ultima tra le sue poche concesse, resa a un grande del giornalismo, Gianni Minà, il giornalista a cui nessun grande, da Mohammad Alì, nato Cassius Clay, a Fidel Castro, ha saputo dire di no. È questo. Miná gli domanda quale fosse la cosa che lui odiasse maggiormente. Fabrizio: “la violenza. Non la sopporto. Mi fa paura. E di questa, maggiormente, l’ipocrisia, che rappresenta la violenza della parola.” Anch’io non sopporto l’ipocrisia. Di essa ho paura. E non solo perché ne sono stato spesso vittima, anche di recente, ma perché pur conoscendola non riesco mai a contrastarla. Da che mondo è mondo, essa è sempre esistita. Ha fatto danni, alterato il corso della storia e della vita delle persone.
Ha costruito carriere immeritate e poteri ingiustificati. Ha distrutto carriere e vite delle persone. L’ipocrisia è cattiva più di un male notorio, perché si confonde tra mille cose gradevoli, si nasconde anche tra le pieghe di una camicia, sotto il sedile di un divano, in una scatola di sigarette, in una sigaretta anche. Si veste di cortesia e di simpatia. Si serve della teatralità e della recitazione, anche non ben fatte. Usa anche la gestualità. Ovvero, la fisicità dei gesti buoni, la stretta di mano, l’abbraccio, soprattutto. Anche la semplice pacca sulle spalle. Impiega con sottigliezza anche gli occhi, colorando lo sguardo di luce e colori, sotto i quali c’è il nero della furbizia incattivita. L’ipocrisia si “serve” di tutto ciò che le serve per farsi largo tra la bontà delle singole persone e l’ingenuità della gente-bambina. E affermarsi. Ma è della parola che ha più bisogno. Una delle più belle doti umane, una delle migliori creazioni dell’individuo in relazione con gli altri, viene alterata, usata maldestramente, piegata a un uso strumentale e gettata disinvoltamente nel campo sporco della insincerità e della menzogna. Questo male si diffonde come una causa e, insieme, come una conseguenza nelle società in crisi. Di valori e tensione culturale e morale. Oggi, infatti, è da non poco tempo, è sempre più diffusa. Cammina, con la bocca dei furbi, indisturbata nella società. Niente e nessun la frena. Neppure la disturba.
La si accetta passivamente, tanto che la verità non solo scompare dalla scena sociale e dei rapporti umani, ma non viene neppure cercata. Ovvero, si accetta quale verità ciò che l’ipocrisia ci presenta come tale. Ho fatto questa lunga premessa per essere più incisivo e breve nei due fatti che ultimamente mi hanno disturbato tanto. Il primo è l’uso strumentale della drammatica vicenda di Beauty, la ragazza nigeriana, protagonista di un atto straordinario, attraverso quel coraggio, qual è apparso, derivante dalla rabbia per le umiliazioni subite e da quel gesto rivoluzionario, qual è apparso, scaturente da quel senso di ribellione contro la violenza dell’ingiustizia subita, divenute in una ragazza che è anche madre, insopportabile. Oggi. “ che l’ha detto” la moderna televisione( il web e la rete) siamo tutti compresi nel fatto e commossi per quel pianto in quel viso dolce e ribelle, nero e lucente. Ma di lei prima, delle centinaia di Beauty invisibili, nei luoghi della fatica estiva e nei campi di pomodori e nelle vigne, nei campi asciutti e assetati della nostra Africa, di quei piccoli mezzi di trasporto in cui dal caporalato, decine e decine di nuovi schiavi vengono stipati all’alba per essere imbucati nuovamente a sera dopo diciotto ore di lavoro massacrante, di questi non parliamo.
Non li vediamo, perché lontani sono quei campi e lontane le ore in cui essi compaiono dalla profonda oscurità. Del dove vanno quando non sono a lavoro, del dove si nascondono nelle notti del negato riposo, dei tuguri in cui riparano l’ultimo scampolo di dignità, dei ricatti che, soprattutto le donne, subiscono, non ne parliamo mai. Degli italiani e dei calabresi, della povertà estrema che a migliaia ne sta divorando, neppure, se non quando, a ogni elezione, non saremo andati, anche quali interposte persone, a consumare la più grande delle ipocrisie a copertura del più grande inganno e della più brutta menzogna, il voto in cambio di una promessa che non sarà rispettata. Beauty, oggi, dalla disperazione è passata alla televisione.
La star del dolore e della povertà, è davanti a noi. Noi, indignati. Noi, offesi. Noi, feriti. E dalla violenza consumata da quello lì, in quel posto là, come se quello lì, il titolare del lido, e quel posto là, lo stabilimento balneare, fossero di un’alta regione, un altro paese. Un altro mondo. Meraviglia che questa volta, per negare che siamo tutti “ quello lì”, non siamo usciti con la didascalia “ siamo tutti Beauty”. E meno male! Ci basta fare a gara a chi offre un posto di lavoro a questa ragazza.
C’è anche chi, sempre in preda a un protagonismo attoriale, la vorrebbe assumere per un’attività che notoriamente non dura che per pochi giorni, molti dei quali sono già passati.
Per quali mansioni, con quale contratto e con quale retribuzione nessuno ne parla. E visto che sono tanti i posti offerti a una sola ragazza che non potrebbe occuparne che uno soltanto, perché non li si offre, da subito, alle tante ragazze e ai tanti ragazzi, anche calabresi, disoccupati o sfruttati? Quanto alla proposta più altisonante per il teatro pubblico da cui è partita, sarebbe bello trovarla concretata in un contratto annuale di qualsiasi attività in cui Beauty, che ha dimostrato di essere intelligente e sicuramente capace, energica e volenterosa, potrebbe esaltare se stessa, la sua umanità, e le sue qualità personali. L’ho fatta lunga.
Del secondo fatto disturbante, ne parlerò in altro momento.
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