di FRANCO CIMINO
"Tra poche ore da questa riflessione Giancarlo Pittelli, l’uomo più invisibile al mondo, il catanzarese più sconosciuto ai catanzaresi, il politico più anonimo della politica, l’avvocato dallo studio sempre vuoto di collaboratori e clienti e l’ultimo, per ordine di importanza, nell’elenco dell’Ordine di appartenenza, l’ospite ingeneroso con la casa sempre vuota di persone e amici, specialmente quella del mare, compirà sessantanove anni. Ne mancherà soltanto uno per toccare una vetta vitale tanto ambita da quanti, oggi, con l’evoluzione naturale della specie umana, la raggiungeranno ancora giovani e carichi di voglia di vita e di progetti.
Nel carcere di Melfi, dove è rinchiuso da tre mesi dopo una utile parentesi di arresti domiciliari seguita a oltre un anno trascorso nel carcere di Nuoro, non potrà festeggiarlo. E non vorrà, di certo, festeggiarlo anche per il rifiuto del cibo, cui ha affidato la sua protesta contro ciò che da più parti ritiene, quest’ultima, una inutile rigorosa detenzione. Immagini che arrivano da quel posto lo presentano gravemente provato anche nel fisico. Voci insistenti dicono che sia in pericolo di vita. I soliti bontemponi di provincia e di ignoranza crassa, scommettono, con il solito risolino sule labbra, su quanto resisterà. I soliti altri, quelli che hanno sempre la sentenza in tasca e la voglia di scaricare le proprie frustrazioni, da invidie anche sociali, insomma quelli del bar dello sport, il giustizialismo oggi il più praticato, diranno che è una farsa o il nuovo atto di arroganza di un “potente” capriccioso.
Un altro dopo quello consumato con la lettera inviata a un ministro della Repubblica, e parlamentare, sua amica tra l’altro, per chiedere aiuto a superare una condizione che egli considera fortemente ingiusta e lesiva della dignità della persona. Atti, questi due, determinati da una disperazione che ben si legge negli occhi e nelle parole di Pittelli. Tutti gli accusati di reati, diciamolo chiaramente, hanno diritto di rappresentare nei modi non violenti la disperazione che li coglie, specialmente se ancora non condannati. Tanti lo fanno e se non riescono a filtrare la loro voce oltre quelle mura, la colpa non è di chi si muove nella stessa direzione con maggiore, e credo non voluta, esposizione pubblica. Pertanto, qualsiasi atto che si muovesse dalla coscienza buona degli italiani a favore di uno soltanto di questi uomini, deve chiaramente intendersi diretto a tutti quei detenuti che versano, soprattutto nelle lunghe more di una sentenza, in condizioni di particolari sofferenze. Io non sono un giurista, né molto, né fine, né poco. Non lo sono affatto. Sono un umanista con aspirazioni da intellettuale.
Un politico con la voglia di poesia. Uno che pensa con la tentazione della filosofia. Non entro mai nelle sentenze, che rispetto perché sento di rispettarle e non perché, come si dice, vadano rispettate. Non chiacchiero neppure intorno alle indagini e il lavoro degli inquirenti non discuto. E non perché abbia paura di farlo, come tanti che assegnano impropriamente alle Procure un potere che esse stesse non vogliono, ché spirito della Costituzione lo vieta. Non le discuto perché rispetto il lavoro di chi tratta soprattutto di una materia, la più delicata e preziosa, la libertà delle persone prima ancora che la difesa della società da chi devia dalla legge, che l’ordine sociale in Democrazia contribuisce a garantire. Nella sensibilità che accompagna il mio pensiero mi sono formato un principio, che esula dagli stessi procedimenti giudiziari, i più corretti, e dalle sentenze, le più nutrite. È questo: “se la Giustizia non è umana, non è giusta".
Qui dentro c’è tutto quanto possa superare anche la classica obiezione circa la fredda oggettività dell’applicazione della legge( che significa, boh!), che essendo opera dell’ingegno umano applicata da uomini ad altri uomini, non può che ispirarsi al principio di umanità. Nel quale vi è il rispetto della dignità della persona. E la tutela della vita. Sempre. Uno Stato democratico si distingue da qualsiasi altro anche da questo. Da qui, pertanto, aggiungo una cosa ovvia ma che pure va ripetuta e urlata: “i cittadini tutti siamo sempre affidati alle cure protettive dello Stato, oltre che a quelle che si appartengono alla sferra della libera persona e dei suoi affetti familiari e sociali. Ciò è più vero quando la cura dello Stato avviene, per forza di legge e di necessità, all’interno di istituzioni totalizzanti. Quando non vi sono ragioni plausibili per trattenere un cittadino dentro quelle istituzioni, la sua cura va riaffidata a ciò che vi sta fuori, la propria famiglia, la propria vita. Ecco, la vita, il tema più delicato! Nulla vale più di essa. Questo principio valga per tutti, lo ripeto. Ma oggi lo si applichi a Giancarlo Pittelli. C’è un processo importante che lo riguarda e al quale egli non si è sottratto.
Lasciamolo lì dentro e nelle sue piene facoltà di difendersi. Adesso restituiamolo alla famiglia, alla moglie e alla figlia, che stanno trepidando per la sua sorte, cocciutamente da lui messa alla sua ultima prova. Salviamogli la vita. E non per carità pelosa. Ma per il dovere che ciascuno di noi ha nei confronti della società e della umanità delle istituzioni. Per l’amore devoto che ciascuno deve nutrire per la vita. Soprattutto, degli altri".
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