di FRANCO CIMINO
Tutti assolti, dopo sei anni dall’inizio dell’iter giudiziario. Ventitré imputati, rimasti ventidue per la morte nel frattempo di uno, sotto processo in Toscana per il crack della banca Etruria. I reati addebitati non erano casette da poco, anche se in Italia quello della bancarotta semplice e della bancarotta fraudolenta, non suscitano né nella Giurisdizione né nella pubblica opinione lo stesso allarme sociale e lo stesso moto di indignazione che invece provocano in tanti altri paesi, in Europa e nel mondo.
Negli Stati Uniti, in particolare, si viene condannati a decine di anni di carcere e alla vera restituzione fino al midollo dei soldi “ ingannati”. Da ricchi che si era diventati si torna a essere poveri pienamente, deprivati del possesso di ogni bene. Tutti assolti, dunque, per assenza del fatto. Non è stato commesso alcun reato. Questo dice il verdetto. Nessuno è colpevole.
Eppure, di certo è che tre miliardi( sì in euro, non in noccioline)sono volati via. D’un colpo spariti. Dopo un breve periodo ben confezionati in bilanci finti, sono volati via. Ventiduemila piccoli risparmiatori si sono visti derubare dei propri risparmi e della promessa di un futuro tranquillo, finendo tutti in uno stato di frustrazione ben più grave di quello della povertà economica e della disperazione in cui si trovano da tanti anni. La loro battaglia è finita oggi, con gli striscioni improvvisati e poveri, come le loro tasche ed esposti, con le loro umiliate persone, davanti al tribunale di Arezzo, la città una volta capitale italiana della massoneria più viziata, modificata, nascosta e potente. Con questa battaglia di alta civiltà- in America avrebbero alzato le barricate- quei povericristi hanno perso anche la speranza in un’Italia migliore e la fiducia nelle istituzioni. Tutte, non solo quelle in cui, custodito, risiede e opera il Diritto. Si dice anche in questo caso che le sentenze non vanno commentate.
E non è così. La formula democratica è la stessa che presiede alla formazione degli equilibri elettorali. Il voto va rispettato, ma non per questo esso è sempre Vangelo. E neppure Costituzione, in quel suo spirito fondante che assegna alla partecipazione “incondizionabile” dei cittadini l’alto valore di valorizzare la libertà di tutti e di creare le condizioni per un’autentica parità fra tutti gli italiani, nessuno escluso, e il loro paritario accesso ai livelli decisionali. Le sentenze, fanno sostanzialmente la stessa cosa. Specialmente quando sono definitive esse decidono sugli atti di giustizia necessari al funzionamento dello Stato e alla civile convivenza dei suoi componenti.
Per questo motivo, educazione democratica prima che l’ordinamento impongono la piena accettazione dei due verdetti, quelle delle urne e quello dei tribunali. Dopo di che su tutte le decisioni istituzionali si può esprimere il proprio pensiero ancorché bisognevole di tutte le documentazioni formali. Per puro caso la Giustizia italiana, in due luoghi diversi della sua unitaria rappresentazione, ha emesso due sentenze, sia pure per differenti configurazioni di reati. A Locri, ieri, un sindaco semplice di un piccolo comune della Calabria è stato condannato a tredici anni e due mesi, all’interdizione dai pubblici uffici, al pagamento delle spese processuali e alla restituzione allo Stato di seicentomila euro dei fondi da lui gestiti. Le motivazioni, in sintesi, sono ormai tutte note. La sentenza, questa, va rispettata e io la rispetto.
Ad Arezzo, un collegio giudicante assolve ventidue persone dall’accusa di aver fatto sparire tre miliardi di euro fiduciariamente affidati dai risparmiatori alla banca di cui erano sostenitori. Anche questa sentenza, va rispettata. E io la rispetto. Ma posso dire, come docente, cittadino, padre e operatore nella cultura e nella politica, che provo un certo disagio dinanzi a queste due sentenze? Posso aggiungere che provo una certa insicurezza che si muove tra indignazione e paura? No, non per me, che ho coraggio da vendere e resistenza multipla, ma per i miei ragazzi, quelli cui ho insegnato e quelli che sono affidate alle mie cure di padre. È per loro e per tutti i ragazzi che abiteranno questo Paese quando noi, coltivatori di sogni e collezionisti di parole, non ci saremo più, che temo e nell’indignazione tremo.
Anche se sono convinto, in cuore mio, che presto il nostro Paese cambierà e la gente tornerà a coltivare i sogni, a fare poesia con le proprie parole, a percorrere lentamente il cammino della felicità.
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