La riflessione di Franco Cimino sulla strage di Lecce: "La felicità fa paura. Non uccide la pazzia"

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images La riflessione di Franco Cimino sulla strage di Lecce: "La felicità fa paura. Non uccide la pazzia"
Franco Cimino
  30 settembre 2020 00:47

di FRANCO CIMINO

Eleonora, Daniele, Antonio. Tre ragazzi come tanti. Volti puliti, eleganza giovanile. Educati. Ragazzi tranquilli. Figli buoni di famiglie buone. Belli, i due maschi. Bellissima lei, la donna di questo triangolo strano, in cui vi era semplice conoscenza. Forse, un po’ di frequentazione per la temporanea, per nulla lunga, coabitazione di Antonio probabilmente con Daniele.

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Daniele fa un lavoro come lo fanno tanti giovani. Quello che a volte i giovani si inventano o improvvisano, operatore finanziario, che dice tutto e niente. Antonio fa il tirocinante al corso di studi di infermiere professionale. È un lavoro difficile, faticoso, per il quale occorre tanta umanità e spiccato senso della vita. Conosce la sofferenza. Specialmente, quella dura di chi lotta contro la morte. È un lavoro, questo, che non si può fare se non si hanno cuore e polmoni. Amore per la vita. Daniele,invece, aveva la vita in quel corpo ben curato. Corpo d’atleta. La sua passione l’aveva consegnata a quel fischietto di arbitro di calcio, già lanciato verso una sfolgorante carriera. E poi c’è lei, Eleonora, che portava a spasso con elegante scioltezza tutta la bellezza che una donna possa avere, il corpo da modella, un viso d’angelo, una finezza naturale nel portamento, intelligenza vivissima strutturata su studi di giurisprudenza. Studi, che l’avevano prima portata a fare l’avvocato e, in questi ultimi mesi, a vincere un importante concorso all’Inps.

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Sullo sfondo di queste tre vite una città prestigiosa, piccola e ricca di tesori, Lecce, dove vivevano, e i tre piccoli comuni della provincia, da dove provenivano, Eleonora e Daniele tornandovi per l’ultima dimora. I tre comuni sono così piccoli che tutti si conoscono tra loro e tutti si riconoscono l’uno con l’altro. Lo scenario è quello ben noto. Già visto molte volte, anche per il “ pedagogico” contributo offerto dalle tv, che a tutte le ore portano nelle case degli italiani le immagini del più insano sensazionalismo e del più morboso voyeurismo. Sulla scena, il sangue come lavacro della frustrazione e del disinganno, la mattanza di due corpi indifesi come tempesta trascinatrice di rabbia e veleno, di tormento e fallimento. E quelle carni squarciate con il lungo coltello, che vi ha infierito, per il potere di dominare la vita attraverso la morte, forza liberatrice di quel sentirsi prigioniero delle proprie sconfitte esistenziali. E di quella insopportabile inadeguatezza che la morte, a lui dentro, a gocce a gocce gli scavava.

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Eleonora e Daniele, sono stati massacrati con sessantasei coltellate inferte con forza sovrumana da una una bestia furiosa contro la quale nulla hanno potuto la forza giovanile dei due ragazzi e, in essa, il corpo atletico dell’arbitro di calcio, da poco tornato dagli allenamenti quotidiani. Tornato con la sua donna in quella casa appena ristrutturata per farne il loro nido d’amore, con i sogni appesi al giuramento di amarsi per sempre e di generare tutti i figli che dal loro amore sarebbero potuti arrivare. Il quadro della felicità perfetta. Ed è proprio questo quadro, il corpo unitario contro cui Antonio, la belva, ha inferto i suoi fendenti, volutamente non tutti singolarmente mortali. “L’amico bugiardo” voleva fare di più se qualcosa del suo piano non fosse andata storta. Voleva torturarli per ore prima di finirli. Ad operazione conclusa, c’è da tirare, paradossalmente, un sospiro di sollievo per il mare di sofferenza atroce evitata, sebbene uno scopo secondario il più crudele degli assassini se l’è, comunque, conquistato. Quasi come un trofeo: averli visti supplicarlo di lasciarli in vita. E vedere nei loro occhi il terrore per la morte che sopraggiungeva. Non c’è crudeltà più grande. Da oggi, fatica degli inquirenti ultimata, inizia quella degli avvocati difensori dell’orrore impersonificato. Perduta ogni possibilità di ricorrere all’arma difensiva del delitto d’impeto, non premeditato ma quasi “ accidentato”, punteranno sulla incapacità di intendere e di volere in quel momento dell’assassino o della ossessività scatenata su di lui da qualche sbaglio delle sue vittime. “È pazzo”! Chi, in tribunale, è meglio del pazzo? A pensarci “ il pazzo” fa bene anche alla società, che in un solo gesto si libera di ogni sua colpa rispetto alle modalità con cui è venuta crescendo in un groviglio di aggressività e violenza, di anaffettività e cinismo. Di ingiustizie e diseguaglianze. Di pregiudizio e discriminazione. Di moltiplicati scarti umani ed emarginazioni. Di egoismi e solitudini “ abbandonate”, non cercate, provocate, non viste. “È stato un pazzo” a massacrare Eleonora e Daniele, noi non c’entriamo”.

E la vita, dopo il solito funerale strappalacrime a comando, riprenderà come prima. Più cinica e indifferente di prima. Più aggressiva di prima. Continueremo a camminare come folla senza meta e senza soste. Senza guardare gli occhi dell’altro né quelli del cielo. Testa bassa e andare. L’unica attesa è sempre solo quella del prossimo nemico da odiare. Ieri più lontano e ogni giorno sempre più vicino alle nostre case. Sarà il nostro compagno, il nostro amico, il nostro vicino, di banco, di lavoro o casa. Sarà un nostro cugino e poi nostro fratello. L’odio, che coltiviamo, ci scoppierà come una granata sui piedi. La società in cui viviamo sta diventando progressivamente la piazza dei rancori trattenuti e il campo di battaglie degli odi contrapposti. Abbiamo costruito il nuovo mondo sulle paure. Ci chiudiamo, ogni giorno di più, dentro i miti della falsa forza( fisica, tecnologica, materiale, economica, massmediale) per esorcizzare le nostre paure. Quelle, principalmente, nei confronti del diverso. Che non è più solo il disabile, l’immigrato. O il povero che ci mostra, come minaccia per noi, la sua povertà. La povertà come colpa di chi la vive, perché incapace, debole o sconfitto. Il diverso oggi è colui che ha ciò che noi non abbiamo. Il più odioso diverso è chi possiede ciò che non potremo mai avere. Che non sappiamo conquistare. Che non siamo capaci neppure di sentire o di sognare, perché ne abbiamo più paura della sua stessa mancanza.

Alle mancanze ci si abitua, specialmente di una cosa che non abbiamo mai posseduto. Un individuo cresciuto nella violenza ha paura della tranquillità, vissuto nella tristezza ha paura della gioia, nel buio di una stanza ha paura della finestra che si apre alla luce del mattino. Chi non conosce la felicità, perché incapace di concepirla o per aver depositato, con il cuore impotente, desideri impropri nel luogo in cui nascono i sogni, non vuole vedere la felicità. Ne ha paura. E prova odio verso di essa quando da lontana ne appare la forma. Odia la felicità prima ancora degli esseri umani felici. Anche perché se sono come lui, non saranno capaci di trattenerla o di rinascerla. L’infelice, impotente di cuore e di altra forza, dalla paura fattosi sputare, con la sua arma in mano, sul volto bello dei due innamorati, quella sera d’inizio del nuovo autunno, ha odiato, questa volta, i possessori della felicità. Più che la felicità, ha odiato Eleonora e Daniele, perché erano davvero felici. “ Li ho uccisi perché erano troppo felici.”

Un motivo troppo banale, aleatorio, perché possa essere il vero movente della strage di Lecce, diranno in tanti. Non si perda tempo per cercarne altri nascosti. L’infelice dal cuore impotente, l’individuo incapace d’amare, ha ucciso i due amanti felici, ché l’Amore dà sempre la felicità. Prima di spegnere i riflettori sull’ennesima tragedia, riflettiamo su questo male che cammina nella società, inquina i rapporti umani e ci lascia individui impedendoci di diventare persone. Rimbocchiamoci le maniche e riprendiamo la promessa che la nostra Costituzione ha scritto senza l’impiego di parole: essere felici. E non da soli, ma insieme. Ché la felicità è la certezza del sogno che diviene realtà. Qui, in questo mondo. Anche qui, in questo mondo.

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