La riflessione. Domenico Bilotti: "L'Aranceto è una ferita di tanti anni"
Domenico Bilotti
28 ottobre 2021 10:49di DOMENICO BILOTTI*
Ho cominciato a frequentare la geografia meridionale della città di Catanzaro quando l'espansione del Campus aveva fisiologicamente saturato il più richiesto quartiere della Marina e attività commerciali o case di amici iniziavano a radicarsi da viale Lucrezia Della Valle in poi. Erano grosso modo i mesi in cui finivo il dottorato, oltre una decade addietro: ere geologiche per l'ecologia sociale urbana. Come molti studenti e giovani lavoratori peraltro avevo un'idea molto parziaria degli spazi cittadini: avevo vissuto prevalentemente in centro storico e a San Leonardo; Lido era lo spicchio di ingresso sotto il ponte e la stretta e lunga bretella di lungomare fino a Giovino. Posti come Santa Maria e Pistoia non sembravano effettivamente belli (negozi dismessi, alcuni abusi edilizi riconoscibili anche da chi non fosse esattamente esperto di diritto amministrativo), ma stupivo soprattutto a considerare che per anni non ne avessi praticamente sospettato l'esistenza. L'Aranceto spiccava per la strada che allargava e gli enormi caseggiati, resi almeno a vista un po' più tristi dall'avere soprattutto affacci interni: anse perfette per la risacca di chi non vuole vedere.
Mi è capitato già allora di chiacchierare con la gente del posto e notavo che grosso modo prospettive e punti di vista fossero essenzialmente due (che non mi parevano e né mi paiono fondamentalmente sbagliati): da un lato c'erano e ci sono residenti chiaramente esasperati dall'assortito campionario di disservizi -fognari, nel trasporto pubblico, nell'illuminazione notturna- e dall'altro c'erano e ci sono famiglie legate anche da vincoli di parentela con soggetti coinvolti a vario titolo in operazioni di polizia, ma ad esse sotto il piano della stretta responsabilità penale più o meno estranee. Persone, cioè, che del volto istituzionale dello Stato avevano conosciuto non la compattezza regolamentare o le prestazioni sociali, quanto un'attività di contrasto che pur destinata ad altri colpiva indirettamente anche loro. Date le premesse, quando un blitz contro racket, furti o traffico di stupefacenti avviene in una di quelle zone della città, verso in una condizione di "amara non sorpresa". Facciamo finta di apprendere peraltro, come se ogni volta fosse la prima, che nello spaccio sono coinvolti minori, che hanno compiti da catena di montaggio: trasporto, custodia, vedetta, distribuzione. Scopriamo che è diffuso l'acquisto a credito e che le modalità di riscossione non sono esattamente lettere legali. Vediamo che interi isolati campano (o non campano) appresso al mercato delle droghe.
L'immagine che è lasciata alla città ha del disastroso, e non riguarda solo Catanzaro, come meccanismi simili non riguardavano a Napoli solo la Secondigliano delle faide quindici anni addietro. È un modus operandi delle compagini associative dedite al narcotraffico, che abbiano carattere mafioso o meno, sul quale la giurisprudenza di merito italiana ci notizia da almeno quattro decenni. Non è una fitta, se vogliamo stare alla metafora medica, sono cisti, metastasi, casi cronici. Ne viene così marchiato a fuoco (la parte per il tutto) un intero quartiere, che spesse volte è tra i più popolosi e popolari dei vari contesti urbani. Uno di quelli, per capirci, dove la campagna elettorale è sempre strategica, ma dove a urne chiuse il disinteresse può tornare e torna dalla sera alla mattina. Le radici dei problemi hanno nomi e cognomi: una dispersione scolastica in crescita o comunque difficilmente mappabile; una connessione limitata o assente con le altre zone della città; un mercato illegale che minimizza i suoi costi tanto sfruttando soggettività marginali e precarie (cui spesso quel mercato illegale sembra la sola fonte di guadagno) quanto abbassando drasticamente il livello qualitativamente farmacologico dello stupefacente spacciato, o artatamente bombandone gli effetti per raggiungere più rapidi livelli di dipendenza o deteriorandone il taglio fino alla vera e propria tossicità. Chi non vede l'ora di andarsene e chi accetta acriticamente la soggezione sociale e criminale finisce paradossalmente attratto nello stesso campo semantico: la rassegnazione all'ineluttabile. Restiamo tutti fermamente convinti che le operazioni giudiziarie abbiano un peso e un significato. Sono noti gli effetti immediati: se vengono disarticolati cartelli criminali forti c'è un vuoto di potere, invero piuttosto illusorio.
La criminalità, come pochissime altre forme dell'agire, soffre di horror vacui: tende a rimpiazzarsi inseguita da una domanda che non vede l'ora di soddisfare. Altre volte, subentra nell'immediato un senso di sollievo, perché non sempre ras e fortini sono graditi a tutti, talora anzi le persone comuni ne avvertono la plumbea consistenza. Ci pare però che l'una e l'altra evenienza non siano troppo distanti quando restano i problemi preliminari che favoriscono quelli più gravi, e i dormitori non nascono dalla sera alla mattina ma sedimentano e stratificano esclusione e malversazione per anni, se non addirittura decenni. I procedimenti faranno e fanno il loro sacrosanto corso, ci mancherebbe: è una forma di azione che spetta all'investigazione e alla giurisdizione da cui l'investigazione dipende (ricordiamocelo, non il contrario). Ci sono invece attività che non stanno in subappalto alle retate o ai lavorii di indagine. Spettano alla famigerata ed ectoplasmica società civile, a una scuola in difficoltà nella penetrazione comunicativa, a uno Stato sociale che deve avere non un carattere largitorio, ma un cuore e una testa, un fine e un programma per conseguirlo. Se la risposta soffia ancora nel vento, negli slarghi tra le palazzine giustapposte vento ce ne è molto. Orecchie per ascoltare negli anni ne son passate poche.