di FILIPPO VELTRI
"Sopravviverà il Partito democratico alla bomba-Zingaretti? Sopravviverà, cioè, come soggetto politico unitario e non come pura federazione di correnti qual è oggi? O si sta andando verso un esito infausto, con una nuova separazione fra radicali e riformisti? Alla fine lo spirito di sopravvivenza ha indotto i maggiorenti del partito a trovare un accordo per tirare avanti fino al Congresso (forse tra due anni e sara’ tematico, cioè senza primarie), cosìcome in queste ore è stato fatto con Enrico Letta, richiamato in fretta e furia da Parigi come salvatore della patria e che domani sarà eletto nuovo segretario del partito. Ma il punto è più di fondo.
Perché la verità è che, per la prima volta dalla sua fondazione (2007), è in discussione la sopravvivenza di un partito unico del riformismo storico italiano, che già ha perso pezzi a sinistra (LeU) e a destra (Italia viva e Azione), ma che resta pur sempre, bene o male, il partito di riferimento del riformismo socialdemocratico, cattolico-democratico e liberaldemocratico: il famoso amalgama chiamato Pd. La crisi innescata con la bordata di Zingaretti è, infatti, soltanto la punta dell’iceberg di una crisi che viene da lontano: dalla formazione stessa del partito e poi dal progressivo sfilacciarsi delle ragioni forti per cui nacque e il contestuale venire avanti di pure logiche di ricerca e di gestione del potere.
Ma ecco che, arrivati a un certo punto, la ricerca del potere ha interamente sostituito lo spazio della ricerca, della proposta, dell’apertura all’esterno. È diventata il fine ultimo. Al punto che si ha persino l’impressione che il Pd non si ponga nemmeno più il problema della ricerca del consenso degli italiani, un consenso che per andare oltre il 18-20 per cento dovrebbe aprirsi a quei pezzi di società che condividono i valori e la visione del Paese nell’ambito della vasta area del centrosinistra.
Al contrario, in questi anni tutti gli sforzi dei dirigenti del Pd sono stati rivolti a individuare “alleanze strategiche”, dentro quello schema che Goffredo Bettini spiegò con grande chiarezza, immaginando un “tridente”: la sinistra di Pier Luigi Bersani, il Pd “contizzato” e la “terza gamba” che Matteo Renzi avrebbe dovuto costruire al centro. Vale a dire, la teorizzazione della rinuncia a parlare a tutto il Paese con un Pd che invece pensa di rimanere al 20 per cento (o magari anche al 15 per cento, chiuso nelle sue correnti sempre meno rappresentative) e che, grazie al proporzionale, può continuare a essere centrale nella gestione del potere politico italiano, perpetuando le lotte al proprio interno e l’accaparramento dei migliori posti offerti dalla grande “agenzia di collocamento interinale” democratica.
Sintetizzando brutalmente, per fotografare la situazione del Pd può essere utile il motto di Renzo Arbore “meno siamo meglio stiamo”, al quale si può aggiungere il concetto “meglio il 15/20 per cento con noi al comando che il 25/30 per cento con quelli meglio di noi”.
Detto questo, le responsabilità sono di tutti coloro che hanno contribuito a cambiare la natura del Pd da partito politico a federazione di correnti. Tutti sono responsabili, nessuno escluso, e per questo Nicola Zingaretti non può far finta di cadere dal pero: cosa ha fatto in questi due anni per aprire il suo partito, per sottrarsi ai ricatti di cacicchi e capetti, per rompere la crosta centralizzatrice che ha dominato il ponte di comando al Nazareno?
Letta - forse a partire proprio dal discorso di investitura che farà oggi all’Assemblea Nazionale del suo partito - dovrebbe dare risposta a due domande: la prima si richiama alla storia e ai contenuti della sinistra socialista e socialdemocratica che in seguito alla crisi della globalizzazione e all’accentuarsi delle disuguaglianze reclama progetti più radicali. Cioè LeU più grande: è quello che vogliono Roberto Speranza e Bersani, un nuovo soggetto politico che ha molti sostenitori nel Pd, da Andrea Orlando a Giuseppe Provenzano, agli zingarettiani. E di cui parla Massimo D’Alema.
L’altra domanda è quella che reclama una forza riformista, liberale, garantista, europeista, e anche qui i nomi di possibili costruttori non mancano. Per ultimi ne hanno parlato Petruccioli e Tronti, in aperta polemica con Bettini. Ma nel Pd – questa è la domanda – esistono forze interessate a una simile operazione di dolorosa presa d’atto che il partito unitario, messo così com’è messo, non ce la fa? Se tutto questo è vero, il caso Zingaretti si potrà anche chiudere con Letta segretario ma resterebbe spalancato l’interrogativo sulla reale possibilità di andare avanti senza un big bang nella testa dei gruppi dirigenti. Le due domande traggono infatti ragione dall’impasse drammatica di questi giorni, i più scuri nella breve storia di un Partito democratico avvezzo a barcamenarsi nei meandri del Potere ma che rischia seriamente di smarrirsi nella grande vicenda della Politica".
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