La riflessione. Franco Cimino: "Come la distanza da coronavirus può costruire nuova vicinanza umana e nuova civiltà"

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Franco Cimino
  18 maggio 2020 18:48

di FRANCO CIMINO

Finalmente fuori! Siamo tutti usciti. Prima di quanto ci era stato detto, prima di quando ci era stato promesso. Siamo usciti molto prima di quanto avevamo tutti temuto. Siamo usciti con regole antiche e con regole nuove, secondo quella metodologia tutta italiana di andare senza spostarci, di cambiare restando uguali, di modificare le cose che restano come sono. Si sa che il virus non è sparito, che il calo dei contagi con quelle morti sempre in campo non è del tutto rassicurante. Si sa che nei paesi che hanno anticipato l’apertura le cose non stiano marciando per il verso desiderato. Si sa, soprattutto, che del coronavirus abbiamo conosciuto tutto e ancora non conosciamo in fondo nulla.

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Non è che conosciamo poco, è che proprio non conosciamo nulla. Non sappiamo ancora esattamente come si sia formato, come nel passaggio si sia rafforzato. Non sappiamo come si curi e con quali medicine se non quelle dell’emergenza e della rianimazione. Non sappiamo perché sia così veloce nella trasmissione e così mortale nella forza. Non sappiamo ancora se tutte quelle fasce d’età che abbiamo considerate al sicuro o più protette, siano davvero immuni, ovvero autoimmuni lo siano diventati coloro i quali hanno preso il virus o da esso siano guariti. Non sappiamo inoltre se la tanto attesa estate e quel caldo “ bollente” , una volta fastidioso, davvero agiscano distruttivamente come sugli altri virus, per cui almeno per questa stagione il nostro nemico capitale ci lasci in pace e lui stesso riposi.

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Infine, anche se solo per questo spazio, non sappiamo se le norme di distanziamento, progressivamente mutate, e quelle igieniche, personali e pubbliche, anch’esse sensibilmente modificate, ci riparino totalmente o quanto dal contagio; se le mascherine servano e quando davvero usarle. Non sappiamo nulla neppure dell’ultima posizione espressa dagli scienziati consulenti del Governo in ordine alla preparazione dell’ultimo Decreto. E cosa effettivamente significhino quelle parole che il presidente del Consiglio ha detto nell’ultima conferenza stampa, circa il rischio calcolato nell’aprire oggi per l’altro stato di necessità, quello sociale. Calcolato in base alla rapida capacità con cui si chiuderebbe nuovamente (e dove o cosa), nel caso della riemersione ( entro quale soglia)del virus? Ovvero, calcolato sulla nuova attitudine delle nostre potenziate strutture sanitarie a gestire una nuova ondata dei contagi, pur lontanamente paragonabile a quella iniziale, che il Paese non poté gestire, subendo da lì il carico insopportabile di ben trentaduemila morti? Quei morti che ci trovano non solo in debito di responsabilità ma anche del pianto delle famiglie e della Nazione.

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La prima fase ci dice che essa abbia funzionato bene. Se penso ai ritardi, alle contraddizioni a cavallo tra metà gennaio e la prima di febbraio, ai balbettii e ai trionfalismi della politica tutta, che ha aperto le porte della Lombardia già contaminata, mi verrebbe da dire che non ha funzionato bene. Magari, dopo quella prima sbornia collettiva, sì. I meriti? Certamente del Governo. Di sicuro anche dei cittadini. Merito, soprattutto, della paura che ha preso tutti e invaso ogni campo, specialmente quello delle istituzioni. Una paura che si è fermata solo davanti alla disperazione di chi stava perdendo tutto. Ma adesso è finita, così sembra. Finalmente! Siamo liberi. Da oggi siamo, però, in libertà condizionata. Liberi a tempo. Liberi poco. Liberi, forse. In fondo, va bene così. È giusto così. La Resistenza umana ha un limite. Resistenza umana come persone e famiglie, come società nel suo complesso. Resistenza umana come Paese e le sue strutture, che pur materiali hanno sempre un’essenza umana. Se per lunghe settimane sono stati gli industriali, gli operatori economici e l’economia nella sua ampiezza, a premere per la riapertura, negli ultimi giorni, non pochi, a chiedere con forza sotterranea di poter respirare la vita e l’aria “ripulita” è stata la gente, gli italiani in forma corale, quasi che, da quei balconi dei canti e delle recitazioni della speranza, si levasse un solo grido: libertà.

Libertà di muoversi, evidentemente, di incontrare gli altri, di vivere la Città, come spazio sacro in cui la libertà si esalta anche quale forma d’amore. Libertà come mezzo per esorcizzare il pensiero della morte che ha aleggiato, fermandosi per centoventimila volte, e forse assai di più, sull’Italia. Il forte desiderio del vivere contiene la richiesta del non morire. Non sembri, questa affermazione, né retorica né contraddittoria, ché nella fase attuale è il sentire la minaccia di un altro morire la nuova questione di cui si sono occupate-premendo indirettamente presso le autorità-le religioni, l’etica, la psicologia e la sociologia. L’Italia delle persone, oltre a quella dell’economia, non ce la fa più. Ha bisogno d’aria. Lo ha dimostrato già ieri, la viglia, approfittando della domenica per uscire in tantissimi, riempiendo le strade delle automobile e i luoghi della corsetta e del passeggio, le spiagge i i parchi. Buon segno. Si spera che la prudenza dei comportamenti sia la regola prima e le regole, in ultimo un po’ largheggiate, particolarmente nell’ambito dei servizi, costituiscano per tutti un nuovo modo per migliorare la nostra cultura della convivenza e delle relazioni sociali. Sia questa emergenza sanitaria l’occasione per migliorare la qualità della vita. I fatti dimostrano che sono bastati due mesi di fermo macchine e persone per migliorare la qualità dell’aria e delle acque, e la vita stessa della fauna e della flora. Tutta la vita è rifiorita in tutto il suo rigoglio. Impegniamoci da subito nel dovere di ridurre progressivamente l’emissione nell’ambiente di qualsiasi sostanza che possa inquinarlo. Le nuove regole ci hanno imposto l’uso continuo dell’acqua per mantenere ininterrottamente pulito il nostro corpo, in particolare le mani. E però educhiamoci a un sentimento nuovo verso l’acqua, che sia fatto anche della conoscenza del suo incommensurabile valore umano e quindi economico.

Pertanto, non la si sprechi con un suo uso disinvolto e superficiale, che ne aumenti lo spreco e il suo danneggiamento. Le aziende con gli enti locali preposti alla sua gestione e distribuzione, provvedano a rifare quelle condotte che, inadeguate e vetuste, sporcano e disperdono migliaia di ettolitri d’acqua al giorno. La distanza, anzi e le distanze, siano utilizzate in favore degli spazi vitali e della vita organizzata e non più piegate a qualsiasi forma di economicità o interesse esclusivo. Parlare a un metro di distanza, evitare di toccare l’altro nella conversazione e di parlare a un ritmo per cui dalla bocca si diffondano sostanze salivari o profumi indesiderati, è un elemento di buona educazione che non debbono risultare provvisori o contestuali all’emergenza in atto. Distanziare i tavoli al bar e nei luoghi della ristorazione, evitare che ci si sieda toccandosi con quello del tavolo “ attaccato”, è un altro elemento del buon vivere. Esso, consente, tra l’altro, finalmente, agli amici di parlare con riservatezza e agli innamorati di dirsi e darsi parole e sguardi dolci e romantici. E così in spiaggia. Vi ricordate come si stava, con gli organi preposti al controllo delle regole da anni pure esistenti che si distraevano o chiudevano un occhio o la pratica con una semplice contravvenzione? Ombrelloni uno attaccato all’altro, lettini e sdraio quasi uno sull’altro, privando il bagnante non solo del diritto al riposo e alla privatezza, ma anche della normale più semplice condizione di vivibilità. Le nuove disposizioni, che io trovo accettabili nel compromesso raggiunto, non faranno altro che restituire benessere a quanti vorranno vivere la bellezza dell’estate, dello svago, della vacanza, e dell’uscita “ ristoratrice”.

Non facciamo che tutto ciò passi quando il coronavirus sarà sconfitto o non appena, come sembra più possibile in tempi brevissimi, con la classica dimenticanza di noi italiani che quando “ vediamo passare il Santo abbiamo fatto passare anche la festa”. Sia, invece,questa emergenza, lo spazio per creare nuovi ambiti di vivibilità in cui la persona incontri se stessa incontrando gli altri che desidera incontrare. L’Italia è un grande Paese per quel suo genio creativo che ha costruito nei secoli bellezza sulla Bellezza. Lo è anche anche per questa sua capacità di fare delle difficoltà tante possibilità, della rovina una bella cosa, da ciò che degrada e minaccia altre forme di civiltà. In alcuni storici casi, e quest’ultimo del virus lo è, è più grande ancora perché lancia nel futuro il buono che ritrova nell’antico. La giusta distanza fisica per il rafforzando della vicinanza umana, dentro e fuori la stessa persona, e il recupero del valore di una cena o di una chiacchierata, sa di buono. E di sano. Sa di vita. La felicità si trova nelle piccole semplici cose. 

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