di ANNA TRAPASSO
La rivincita delle arricchite. Di quelle bambine nate povere che oggi, sudando, sgomitando, sgobbando sui libri e combattendo (soprattutto contro il pregiudizio), sono donne realizzate e, dall'alto dei propri tacchi vertiginosi e ammantate di pailettes, possono finalmente permettersi il famigerato divano di design in salotto.
Lo sanno tutti i quarantenni: il divano di design è l'icona per eccellenza della propria capacità economica, è il manifesto del "ce l'ho fatta" da sbattere in faccia ai ricchi, quelli "veri". Assieme ad un fenicottero rosa, un finto cactus, fili di lucine intermittenti e scritte led, e tutti quegli inutili feticci che fanno sentire le nostre case "ricche" sol perché possiamo permetterci di spendere migliaia di euro in oggetti totalmente inutili ma belli.
E' questo il concetto dietro "Una ragazza come io", sold-out sabato scorso al Politeama di Catanzaro per la prosa di Festival d'Autunno.
Chiara Francini, brillante attrice, scrittrice e conduttrice (classe '79), a teatro è una ragazza come me, come te, come tutte quelle che guardavano "Non è la Rai" dai loro piccoli appartamenti di provincia e sognavano -al ritmo di Please don't go- di essere Ambra Angiolini. Figlie adolescenti degli anni 90, volevamo diventare famose, semplicemente famose, ed avremmo trovato con tutte le nostre forze un motivo, un merito ed una strada per esserlo.
"Una ragazza come io" è la storia tutta d'un fiato, cantata e gridata al mondo con tutta la propria rabbia proletaria, di chi ce l'ha fatta, da Campi Bisenzio ai palcoscenici d'Italia. Di chi "non è solo bona, ma anche parlante" (!), ma che ancora non si è liberata -e, probabilmente, mai lo farà- del suo divario interiore: "resto una provinciale di campagna, una fuori luogo, una parvenue". Arricchita ma mai davvero ricca, degna di un appartamento ammobiliato di design ma mai di una tenuta sui colli fiesolani e la servitù in uniforme, come invece la sua compagna di scuola di nobile progenie, Ginevra-Bellomo-di-SaintHonoré, Francini si racconta in un testo autobiografico, accattivante, divertente, dal ritmo incalzante.
Lo spettacolo, un atto unico elaborato a quattro mani con Nicola Borghesi, gode delle musiche e dei suoni dal vivo del maestro Francesco Leineri, che fa da spalla alla Francini ed evidenzia i momenti topici con preziosi tappeti sonori e con i suoni del glockenspiel. Le scenografie sono essenziali e funzionali, in scena ci sono tutti quegli oggetti iconici citati nel testo, i cambi d'abito avvengono molto agevolmente e sempre sul palco.
La nascita, l'infanzia, il paese, i nonni, i lunghi viaggi verso scuola con la corriera, il profumo dei panini unti nella cartella, e poi il salto verso un liceo per la Firenze bene, uno di quei licei "per la classe dirigente del domani" (lo stesso di Renzi) con la costante sensazione di sentirsi inadeguata. Sensazione da cui non è facile distaccarsi. Anche quando diventi ricca ma non ti ci senti mai completamente, aderendo più verosimilmente alla categoria degli "arricchiti".
Il tema è questo lungo tutto lo spettacolo, ad eccezione di incipit e finale: la scena apre e chiude, infatti, con una riflessione sulla nascita e sul desiderio di maternità. Se, aperto il sipario, la Francini si presenta al pubblico come un grande embrione parlante, in chiusura invece culla malinconicamente una carrozzina. Il contenuto di quella carrozzina è ciò che poteva essere ma non è stato.
E' il figlio che avrebbe voluto...ma forse no. E' quel bambino "mostruoso e pieno d'amore, amore e orrore", che chissà come sarebbe stato. "Avere una madre come me ti creerà soltanto un sacco di problemi, ti desidero così tanto che sarai per forza una delusione": è proprio sul finale che la Francini mette a nudo i suoi dubbi irrisolti, i suoi pensieri contrastanti, i suoi turbamenti più intimi. Se fossi stata madre, come sarebbe andata? Mentre il pubblico, quello più sensibile, si incupisce facendo propria questa riflessione, Francini riprende subito le redini del suo spettacolo istrionico e divertente, con un finale spumeggiante, da varietà. Vestita di piume rosse, canta "Che male c'è?" un pezzo ironico e ancora autobiografico. E via di selfie con il pubblico, perchè anche il selfie a teatro pieno, in fondo, è un atto dimostrativo da arricchito. Mentre Francini esce definitivamente di scena: "Che male c'è... se sono ricca grazie a me?".
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