Cosa c’è alla radice della legalità al tempo del populismo penale se non un’istanza sostanziale che,superando il rispetto per i diritti fondamentali,cerca il consenso sociale?
A tal proposito spesso si dimentica che proprio il consenso sociale costituisce la linfa vitale della legalità liberale: è questo che legittima l’esercizio del potere punitivo ma a condizione che il legislatore non rinunci a farsi interprete delle istanze sociali che la comunità esprime in termini emotivi e spesso scomposti e che,invece, la rappresentanza democratica ha il compito di razionalizzare.
Se questo non avviene,se la legalità è declinata nella dimensione irrazionale che le istanze sociali le imprimono,allora essa degenera precipitando nel populismo penale.
Ecco che la legge penale finisce per corrompersi proprio per effetto del consensualismo che la deturpa e si fa strumento per sfogare l’ansia punitiva fomentata da alcuni massmedia e da alcune forze politiche tanto ignoranti quanto scriteriate.
E deve essere detto a chiare lettere che la legge penale costituisce invece il meditato limite alla violenza punitiva,non il mezzo per istigare alla violenza.
E la magistratura,come il legislatore,non può tradire la natura delle legge,poiché ad essa è unicamente soggetta e non invece succube delle istanze sociali.
Nell’assetto dei poteri,infatti,la magistratura non può mai valicare i limiti dell’interpretazione della legge costituzionalmente orientata ed il dilemma che avvolge il giudice tra legalità e socialità,per quanto lacerante esso sia,deve sempre essere risolto con misura, così che la discrezionalità,insita nella funzione valutativa,obbedisca a criteri e scopi precisi senza degenerare in puro arbitrio.
Quando la discrezionalità giudiziale trasmoda in tradimento della legalità penale,è perché il legislatore ha rinunziato a decidere,affidando al giudice di toglierlo d’impaccio di fronte alla marea montante delle logiche securtarie e populistiche.
Nunzio Raimondi
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