di RITA TULELLI
Quando un’istituzione come la Treccani decide di celebrare un artista, significa che quell’artista non appartiene più soltanto ai suoi fan: appartiene alla cultura italiana. E se oggi il nome di Rino Gaetano entra di diritto nell’Enciclopedia della Musica Contemporanea, non è per nostalgia o per culto postumo, ma perché le sue canzoni parlano ancora a tutti noi, con una freschezza che sorprende ogni volta. Rino non è mai stato un cantautore “comodo”. Non scriveva inni d’amore rassicuranti, non cercava la carezza del consenso. Anzi, con il suo sarcasmo dissacrante sapeva puntare il dito contro ipocrisie, abitudini e poteri. Ma lo faceva con leggerezza, con quel sorriso storto che trasformava la critica in paradosso, il dolore in gioco. È questa la sua grandezza: dire cose serissime con la leggerezza di una filastrocca. Gaetano era un autodidatta, uno che mescolava nonsense e teatro, ironia e denuncia.
In “Ma il cielo è sempre più blu” prendeva in giro l’Italia intera, senza mai predicare, ma giocando con le parole come fossero dadi lanciati su un tavolo da osteria. In “Mio fratello è figlio unico” metteva in scena una sorta di catalogo dell’emarginazione, in cui molti ancora oggi si riconoscono. E in “Aida” riusciva a raccontare un intero Paese come fosse una donna, con la leggerezza di chi vede oltre la retorica. Quando nel 1978 si presentò al Festival di Sanremo con “Gianna”, lo fece dopo aver dovuto rinunciare a un brano troppo scomodo come “Nuntereggae più”, dove elencava nomi e cognomi di chi “non sopportava più”. Scelse allora la strada più orecchiabile e ironica, ma anche lì spiazzò tutti: un’esibizione sopra le righe, una canzone che diventò un tormentone, ma senza mai rinunciare al suo spirito ribelle. Molti, ai suoi tempi, lo considerarono poco più che un giullare. Eppure, a distanza di oltre quarant’anni dalla sua tragica scomparsa, sono proprio quelle stesse canzoni a resistere più di tante altre.
Oggi Treccani lo riconosce come un “cantautore proletario” nel senso pasoliniano del termine, un artista che ha dato voce agli ultimi, ai dimenticati, agli esclusi. Ma la verità è che Rino era soprattutto libero. Libero di ironizzare sulla politica, sulla religione, sulla società, senza mai inchinarsi a nessuno. Chi lo ascolta oggi non sente solo un pezzo di storia della musica italiana: sente una voce che non ha paura di dire la verità, ma che lo fa senza prediche, con leggerezza, con quella vena surreale che ti strappa un sorriso anche mentre ti colpisce dritto al cuore. Rino era un poeta mascherato da clown, e forse è proprio questo che ci rende impossibile smettere di ascoltarlo. Il fatto che Treccani celebri Rino Gaetano non è solo un riconoscimento accademico: è la conferma che le sue canzoni hanno superato il tempo e i generi. E che quel ragazzo dalla voce roca, che sembrava divertirsi a prendere in giro tutti, alla fine ci ha lasciato una delle eredità più serie e profonde della musica italiana. E forse, se oggi potessimo dirgli qualcosa, sarebbe proprio questo: “Rino, avevi ragione tu. E il cielo è davvero sempre più blu.”
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