di CARLO MIGNOLLI
Dopo il successo dei suoi precedenti romanzi Incontri mancati, Cambiamenti e Una vita fa, Teresa Chiodo torna in libreria con L’altra metà della storia, un’opera intensa e avvolgente, capace di coniugare la precisione della scrittura giornalistica con la profondità emotiva della grande narrativa. Nata in Valtellina e milanese d’adozione ma con origini calabresi, Chiodo ci conduce questa volta nel cuore della sua regione d’origine, in una tenuta sospesa tra decadenza e bellezza, dove passato e presente si sfiorano come fragranze difficili da separare.
Protagonista del romanzo è Eleonora Farace, una ricercatrice olfattiva il cui lavoro - riportare in vita l’essenza perduta del gelsomino - si trasforma presto in un viaggio nelle proprie radici. L’altra metà della storia è un romanzo corale, ricco di personaggi memorabili, in cui ogni voce contribuisce a comporre un mosaico complesso e affascinante, denso di segreti, intuizioni e legami invisibili.
Abbiamo raggiunto telefonicamente l’autrice Teresa Chiodo per parlare di questo nuovo lavoro, del rapporto tra memoria e identità, dell’importanza degli archetipi femminili nella sua narrazione e del sottile confine tra ciò che si ricorda e ciò che si sceglie di dimenticare.
L’INTERVISTA
Sei originaria di Catanzaro ma vivi a Milano da diversi anni. In che modo le tue radici calabresi continuano a influenzare il tuo sguardo da giornalista e da scrittrice?
«Vivo a Milano da diversi anni, ma le mie radici calabresi sono tutt’altro che archiviate. Anzi, credo che influenzino profondamente il mio modo di osservare, raccontare e scrivere. Ci sono delle attitudini che dentro di me chiamo “alla calabrese” - anche se non lo direitroppo ad alta voce, perché sennò la gente chissà cosa può pensare. - Deve essere una forma mentis che ho assorbito fin da piccola, una sorta di eredità che lavora per sottrazione. Nelle relazioni, come nella scrittura, lascio spesso parlare i non detti. Mi fido dei silenzi, della pausa giusta, della frase che non arriva subito ma affioraquando deve. È un ritmo che non ha a che fare con la lentezza, ma con la pazienza dell’attesa che contenuti e pensieri sedimentino. Ho imparato che certe verità hanno bisogno di tempo per decantare, e che la scrittura – come la memoria – non si può forzare. È un principio che seguo anche quando faccio le interviste: mi preparo le domande, certo, ma poi spesso le tralascio. Ciò che scrivo nasce dal dialogo, da quello che emerge davvero quando chi mi parla abbassa le difese, quando l’altro sente che può fidarsi. Cito dal romanzo: “Anche zia Lisetta come i gelsomini all’alba aveva avuto bisogno della luce giusta per aprirsi. Quel giorno Eleonora la trova mesta e con uno sguardo remoto. Le sembra più piccola, con le spalle ingobbite e le mani strette al petto come per trattenere qualcosa un’ultima volta prima di lasciarla andare per sempre.” E poi provo quel gusto calabrese, antico e istintivo, per lo spiazzamento. Mi piace sorprendere, ribaltare i ruoli, cambiare prospettiva. Non per provocare, ma per aprire varchi. Anche nel mio romanzo, L’altra metà della storia, i personaggi sono stratificati, rivelano sé stessi solo col tempo, come un profumo che evolve sulla pelle, pagina dopo pagina. Di fatto è la nota di fondo che mi interessa: raccontare ciò che sta sotto la superficie».
Parlando del giornalismo. Quali aspetti di questo mestiere ritrovi nel modo in cui costruisci le storie e i personaggi?
«Credo fermamente che il mestiere che fai condizioni il modo in cui vivi e operi al punto da dedicare a questo tema un romanzo che si intitola “Incontri mancati”, e il giornalismo per me è stato - ed è tuttora - una scuola di ascolto, di attenzione al dettaglio, un esercizio di seduzione, anche. Prima di cominciare un romanzo, infatti, dedico sempre molto tempo alla ricerca. Ma non è mai una ricerca fredda, accademica. Deve scattare qualcosa: un’attrazione istintiva per un personaggio, un luogo, delle dinamiche relazionali. E quando accade, quando sento quella vibrazione, inizio ad approfondire come se stessi preparando una vera e propria inchiesta: parlo con le persone, faccio domande, prendo appunti mentali. Faccio quello che so fare meglio: ascolto prima per dare forma alla narrazione poi. Solo dopo prendo appunti scritti. Per evitare fraintendimenti parlo apertamente del mio progetto alle persone coinvolte. Nel caso di L’altra metà della storia, ad esempio, mi sono immersa nel mondo della profumeria artistica. Ho incontrato quelli che nel settore definiscono “nasi speciali” e ho intervistato una fragrance designer che mi ha aiutato a capire non solo il suo lavoro ma il suo sguardo sul mondo. Le ho chiesto com’è fatta una sua giornata tipo, che rapporto ha con il proprio olfatto, se l’“essere dotati” sia questione di talento innato o di allenamento. E come spesso succede, la risposta più interessante non è stata né l’una né l’altra, ma qualcosa di più profondo: la tenacia. La capacità di stare dentro con passione a una ricerca anche quando sembra che non stia portando da nessuna parte. Questo, per me, è un tratto fortemente umano, e quindi anche narrativo. I miei personaggi nascono così: da un confronto con persone vere, dal desiderio di comprenderle, non di inventarle. Poi, certo, c’è la trasfigurazione, c’è la scrittura, ma tutto parte da un’urgenza documentaria, dalla voglia di restituire autenticità. Anche se quasi sempre opero degli innesti o dei montaggi. E credo che questo sia il lascito più potente del giornalismo nella mia narrativa: la tensione verso il vero. Anche quando scrivo finzione, cerco la verità. Quella profonda, nascosta, che affiora solo se hai la pazienza di aspettare. E questa è senza alcun dubbio la nota calabrese».
L’altra metà della storia è un romanzo che ha il profumo letterale e metaforico delle origini. Come è nato questo libro e perché hai scelto il mondo dell’enfleurage e delle fragranze perdute come chiave narrativa?
«L’altra metà della storia è nato da una spinta profonda, quasi viscerale: il desiderio di tornare alle origini che si fa tanto più forte quanto più si avanza con l’età. Non solo le mie, personali, legate alla Calabria, ma a quelle che ciascuno di noi porta dentro in modo più o meno consapevole. Volevo scrivere una storia che parlasse di appartenenza, di identità sepolte, di fili sottili che ci legano al passato anche quando crediamo di averli recisi. Anche la parte in cui si parla del grave lutto che ha colpito la mia famiglia costringendola a trasferirsi dalla Calabria ai confini con la Svizzera è vera. Tutto ciò che le gravita intorno è romanzato invece. Il mondo delle fragranze perdute è arrivato quasi per caso, ma si è subito imposto come chiave narrativa potentissima. Ho scoperto l’enfleurage, un’antica tecnica di estrazione dei profumi che prevede tempi lunghissimi, gesti ripetuti e una dedizione quasi rituale. Mi ha colpito il fatto che sia una pratica lenta, quasi dimenticata, eppure capace di restituire l’essenza più pura di un fiore. Mi è sembrato un simbolo perfetto del lavoro che la protagonista - e in fondo ciascuno di noi - è chiamata a fare per ritrovare sé stessa: un processo di ascolto, di cura, di contatto con qualcosa che sembrava svanito. Ho scelto di raccontare questo mondo non solo per la sua bellezza sensoriale, ma per ciò che rappresenta: il profumo come traccia, come memoria. Le fragranze sono invisibili ma potentissime. Come certi ricordi, come certi legami familiari. Ecco, volevo scrivere una storia in cui il profumo fosse insieme materia e metafora: ciò che si cerca, ciò che si perde, ciò che resta. E che, come l’identità, non si può costruire in fretta, ma si compone a poco a poco, in profondità».
Eleonora, la protagonista, torna in Calabria per un incarico professionale ma finisce per affrontare un viaggio molto più intimo. Quanto c’è di autobiografico in questa storia di ritorno, identità e appartenenza?
«Anche se L’altra metà della storia è un’opera di finzione, ha radici profonde nella mia storia personale. Come Eleonora, anch’io vivo lontano dalla Calabria, ma non l’ho mai davvero lasciata. Ogni estate ci torno, e ogni volta è come riannodare un filo: sentire di nuovo la cadenza del dialetto, i profumi dell’infanzia, la luce particolare dei paesi. C’è stato persino un momento della mia vita in cui ho pensato seriamente di tornare a viverci. Poi, come succede anche a Eleonora, mi sono resa conto che le scelte non sono mai così nette come ci piace pensare. Eleonora Farace riflette spesso sul fatto che il senso di controllo che crediamo di avere sulle nostre scelte sia, in fondo, un’illusione. Ogni decisione, infatti, comporta una rinuncia, e ogni rinuncia apre la porta a una nuova scelta, una via che magari non avevamo nemmeno preso in considerazione, ma che qualcun altro aveva già tracciato al posto nostro. E chissà, forse quella scelta, che non avevamo previsto, è altrettanto soddisfacente, se non di più, di quella che credevamo essere la migliore. Una via che magari non avevamo previsto, ma che qualcun altro - la vita, il caso, la storia - aveva già tracciato al posto nostro. E chissà, forse quella strada imprevista è proprio quella giusta. O, perlomeno, quella che ci permette di evolvere. Questo romanzo è nato anche da lì: da quella tensione tra radici e slancio, tra il desiderio di tornare e la consapevolezza che il ritorno, quando accade, è sempre diverso da come lo avevamo immaginato. Eleonora cerca di ricostruire un profumo, ma in realtà sta cercando sé stessa, e io, scrivendo, ho fatto lo stesso. Raccontare il ritorno è stato un modo per abitare entrambe le dimensioni: quella del luogo d’origine, e quella della scelta che non ho fatto, ma che continuo a portare dentro di me».
Il romanzo è attraversato da figure femminili potenti, complesse, ambigue. Che ruolo ha per te la memoria femminile nel racconto del Sud, e perché era importante metterla al centro della narrazione?
«C’è anche una lettura di genere in questo romanzo: l’altra metà è quella delle donne. Delle raccoglitrici di gelsomino, delle mogli dimenticate, delle zie silenziose, delle figlie mai nate. Sono voci marginali ma fondamentali, spesso relegate ai margini della “storia grande”, eppure radicate nella terra e nel tempo. Il racconto delle mani femminili che raccolgono ottomila fiori all’alba e dei saperi che si tramandano, come quello dell’enfleurage, è un recupero prezioso di quella memoria. Nel mio immaginario e nella mia esperienza il Sud è innervato della presenza femminile. Le donne sono state, e sono ancora oggi, custodi silenziose della memoria, delle storie familiari, dei non detti. Sono loro che, spesso in sordina, tengono insieme le generazioni, passano la voce, preservano ciò che rischierebbe di andare perduto. Eppure, questa centralità non è sempre riconosciuta o raccontata. Per questo, per me, era fondamentale metterla al centro del romanzo. Le figure femminili de L’altra metà della storia - da Fedora, la madre nobile e severa, ad Angiulina, la zia oracolare e viscerale, fino alle donne del paese come Veneranda o zia Lisetta - incarnano diverse sfumature del potere e della fragilità, dell’intuizione e del silenzio per scelta. Sono personaggi complessi, solo apparentemente ambigui, e mai monolitici. Alcune conservano, altre rivelano, altre ancora decidono cosa tacere per proteggere. Ma tutte, a modo loro, custodiscono pezzi di verità. La memoria femminile, in particolare nel Sud, non è mai solo individuale. È una memoria collettiva che si muove sottopelle, si tramanda nei gesti, nei proverbi, nei piatti cucinati, nelle storie raccontate a mezza voce. È fatta di alleanze, complicità, ma anche di conflitti e di nodi irrisolti. Ed è una memoria che spesso resiste al tempo più dei documenti ufficiali. Quando scrivevo il romanzo, pensavo proprio a questo: a come le donne, anche quando non parlano, dicono. Anche quando sembrano ferme, agiscono. Anche quando sembrano ai margini, sono il perno. Per me dare voce a questa memoria femminile è stato un atto di restituzione, ma anche di gratitudine. È grazie alle donne della mia famiglia, e a quelle incontrate nel mio percorso, se ho potuto ascoltare certe storie, percepire certe sfumature, costruire certi personaggi. E, in fondo, è proprio da loro che nasce l’altra metà della storia. Quella che raramente si scrive, ma che regge tutto il resto».
Il libro è ambientato in una Calabria sospesa tra passato e presente, bellezza e rovina, silenzi e rivelazioni. Cosa ti auguri che i lettori portino con sé dopo aver attraversato questo paesaggio letterario?
«Non mi interessa che il lettore finisca il libro con una sensazione “risolta”. L’altra metà della storia non vuole rassicurare, ma piuttosto lasciare un’inquietudine fertile, come quando si riapre un ricordo che pensavamo di aver messo a tacere. Mi piacerebbe che chi legge si sentisse dentro una terra che non è solo geografica ma psichica: la Calabria che racconto è una soglia, una linea sottile tra quello che si vede e quello che si intuisce. Un paesaggio che non si concede facilmente, che non vuole piacere a tutti, che trattiene, come fanno certi volti antichi o certe case diroccate che sembrano sul punto di crollare e invece reggono. Mi auguro, infine, che il lettore esca da questo libro con più domande che risposte. E con l’impressione che, per comprendere davvero una storia - anche la propria - serva imparare ad ascoltare i vuoti, non solo le parole. I silenzi non sono pause, sono materia viva. Come certi profumi che restano nell’aria anche quando non si sentono più: non li percepisci, ma ti cambiano. E se proprio devo augurarmi qualcosa, è che questo romanzo inviti chi legge a diffidare un po’ di ciò che appare chiaro troppo in fretta. Perché la verità, nel Sud come nelle relazioni, raramente arriva in linea retta. Serve girarci attorno. Restarci dentro. Senza fretta di uscirne. E poi mi auguro che resti l’idea che ogni ritorno, anche quello più imprevisto o faticoso, può essere un’occasione di riconciliazione. Con la propria storia, con le proprie radici, ma anche con ciò che si è scelto di diventare. In fondo, questo romanzo parla di come ogni frammento - anche il più doloroso o rimosso - può trovare il suo posto dentro di noi. Se solo abbiamo il coraggio di ascoltarlo. Anche il Sud del romanzo - e in particolare Marcinari - rappresenta “l’altra metà” di un’Italia spesso stereotipata, o dimenticata nei racconti ufficiali. Qui invece è un contesto stratificato, complesso: un Sud di eredità nobiliari e conoscenze antiche, di decadenza e resistenza, di bellezza nascosta. Marcinari non è solo un luogo: è una presenza viva, uno scenario che influenza ogni personaggio, che ne modella i pensieri e le azioni. È un paese che custodisce i segreti meglio di chiunque, ma che, come una vecchia casa piena di spifferi, a volte lascia trapelare più di quanto vorrebbe. Nel caldo soffocante dell’estate calabrese, tra i filari del gelsomino che inondano l’aria con il loro profumo inebriante, anche Eleonora si ritroverà a ricomporre un puzzle che la riguarda più da vicino di quanto avrebbe mai pensato. E quando finalmente la verità verrà a galla, nulla sarà più come prima».
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