L’amore per la linguistica e l’antichità come sinonimi di identità, intervista al professor Francesco Polopoli

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Professore Francesco Polopoli
  15 novembre 2021 14:36

di MASSIMILIANO LEPERA

In un periodo di grande dinamicità e forze centrifughe, nel quale spesso si tende a immergersi nella caotica routine con l’immancabile sostegno della tecnologia e di ogni altro supporto di ultima generazione, spicca ancor di più la strenua resilienza di chi cerca di restare ancorato ai valori di un tempo, declinati tuttavia in più sfumature che hanno il sapore della modernità. Stiamo parlando di Francesco Polopoli, professore di latino e greco presso il Liceo Classico “F. Fiorentino” di Lamezia Terme, nonché filologo, esperto di filologia neotestamentaria e divulgatore gioachimita. Ha partecipato a convegni di italianistica in qualità di relatore sia in Europa (Budapest) che in Italia (Università Cattolica di Milano). Attualmente, da articolista, si prende cura dell’antico, non solo tramite le testate online della propria città natale, ma anche attraverso Orizzonte Scuola e Tecnica della Scuola. Attualmente è membro del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, nonché dell’Associazione “Il Cammino di Gioacchino da Fiore”, oltre a essere autore di diversi saggi storici di particolare interesse: “Gioacchino raccontato dai suoi fiori. Atti del meeting letterario, San Giovanni in Fiore, 2012-2014, Echi lucreziani e gioachimiti nella Primavera di Botticelli” (2017), “La Città del Sole come limes. Da Gioacchino da Fiore a Tommaso Campanella” (2018), editi da Pubblisfera Edizioni. Insieme a Maurizio Carnevali e Francesca Prestia, per il lametino, ha realizzato una fiaba musicale sotto forma di picture thinking. Per La Repubblica ha pubblicato, introdotto dal commento di Concita De Gregorio, il saggio: “Enea, il primo dei migranti”. Un’attività a tutto spiano, insomma, che mette al primo posto l’amore per la linguistica, l’antico e lo studio in generale. Ma andiamo a sentire direttamente da lui i punti focali della sua esperienza, partendo dall’ultimo periodo.

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Professor Polopoli, partiamo da una delle ultime esperienze nella quale è stato coinvolto recentemente: “U calendariu lametinu”, che ha come principale obiettivo l’apprendimento del latino attraverso il lametino. Che cosa rappresenta questa esperienza nello specifico?

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"Sostanzialmente, il tentativo di calendarizzare il vernacolo come educazione alla cittadinanza linguistica: il metodo sotteso è la filologia che, da filo logico, aiuta ad entrare nella trama delle parole. Premesso questo, la parola “calendario” fa inferire di per sé la matrice classica: le calende, alla greca, sono il primo di ogni mese, per l’appunto! E cos’era anticamente?  Un registro commerciale su cui si erano inserite le scadenze dei crediti e gli interessi maturati, riportati di solito al primo del mese. Per me “calendarium” è anche un derivato di “calare”, ossia “annunciare”: è il vangelo laico della parola che chiede risorgimento e risurrezione, specie quando si recuperano delle reliquie verbali, le parole antiche, cioè, quelle di una volta. Agli emigrati calabresi dedico questa seconda edizione du’ Calandariu lametinu: sono tanti e sono coloro che restituiscono accento ai nostri linguaggi. Come dice Pavese, Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Li immagino così tutte le volte in cui rientrano accanto alle loro parole tanto suggestive di memorie quanto preziose testimonianze per chi, come me, ha bisogno di dialettofoni viventi per sistematizzare i propri studi dialettali. Nella fattispecie, Il calendario lametino è strutturato per mensilità: ogni mese è dedicato ad un monumento cittadino; la fontana di Cafaldo, la Chiesa della Veterana, il Castello normanno-svevo, il Bastione di Malta, per citare degli esempi. Non mancano curiosità lessicali, cioè spiegazioni di parole idiomatiche in disuso o proverbi del mese. “Jinnaru è mmìanzu duci e mmìanzu amaru”, “A maju du sùannu caju”, “Ppi tutti i Santi ’a nivi ppi lli canti”".

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Il suo interesse e amore per la dialettologia e la linguistica è declinato in varie forme e ha più volte dimostrato di voler riprendere l’antico a partire dal dialetto, come nell’opera di cui sopra. Il suo percorso dialettale sul territorio è di oltre un ventennio e il suo ambito prediletto è il confronto tra le lingue indoeuropee e quelle semitiche, nonché l’amore per i classici e le etimologie. Ci vuole parlare un po’ di ciò, facendo ai nostri lettori anche qualche esempio pratico?

"Credo che attraverso il lametino si possa apprendere il latino: sembrerebbe una provocazione, ma la pista di lavoro è robustamente motivata persino a livello paremiologico. Basta appaiare “Vaju ’nduvi mi pòrtanu i pìadi” ad “ire pedes quocumque ferent” di oraziana memoria, oppure “Raccumandari ’a pìacura allu lupu” a “lupos apud oves linquere” di plautina comicità o ancora “Parica ciampa ova” a “super ova pendenti gradu incidere” di San Girolamo. Ogni scavo archeo-linguistico è da me posto all’interno del circuito delle lingue indeuropee: non nascondo, però, il fascino delle lingue semitiche, sulla scorta del pensiero di Semerano, come illuminazione di non poche parole tra aree geografiche diverse. Un esempio? La parola ápeiron richiama alla mente il semitico ‘apar (polvere, terra), l’accadico eperu, il biblico ‘afar: il frammento di Anassimandro, che è sempre stato tradotto «in principio è l’infinito», alla luce di ciò, potrebbe essere riletto «in principio è la terra». Insomma, tutte le cose provengono dalla polvere e ad essa fanno ritorno. Un concetto che rievoca il messaggio biblico, laddove in Genesi, Dio dice all’uomo: “tu sei polvere e polvere ritornerai”. Scrive Semerano: «[…] Da tempo immemorabile, circa ventitré secoli fa, il mondo culturale dell’Occidente subisce la sfida di quella voce, ápeiron, che l’antico pensatore milesio pose come una roccia scabra e grande a suggello della sua opera Sulla natura ed è più che una pietra di confine, è il viatico dall’eternità al nulla. I posteri che intesero ‘illimitato’, ‘infinito’, tradirono l’antica fede del filosofo nell’infinita maternità della terra che attende di raccogliere nel suo seno ciò che essa stessa ha prodotto […]» (L’infinito: un equivoco millenario, p. 56)".

In linea con ciò di cui abbiamo appena parlato, lei è anche autore del saggio “Alla salute dei classici”, una sorta di medicina linguistica per lo spirito. Di che cosa parla quest’opera e qual è il suo obiettivo?

"A retro-comunicarlo è una bandella della mia operetta: “come la cultura antica possa guarire i mali moderni”.  L’approccio è volutamente semiserio per consentire a chiunque di gustare i Classici nel rispetto delle memorie e in prospettiva del futuro. Che la lingua di un tempo sia terapeutica l’ho applicato persino sul piano dialettologico, riprendendo il tema con cui ci siamo introdotti in questa piacevolissima discussione. Bypasso, immediatamente, la sfiducia scientifica che limito a due detti popolari («di mìadici e midicini arrassu sia»,«’nzina cà ’u mìadicu studìa, ’u malatu si ndi và») per evidenziare un’anamnesi di riferimento generale su piccoli dati sensibili: «teni llu culùri da zafarana» («ha un brutto colorito simile allo zafferano»), «è giàlinu cumu ’nu limùni»,«è jàncu e russu cumu ’nu pumu rumanìallu» («è bianco e rosso come un pomo romanello»), «è sanizzu cumu ’nu citru» («è sano come un cedro»), «anda e cadi» («per dire di uno che non si regge sulle gambe»), «pari ’nnu sìricu musciu» (sembra un sirico, baco da seta). Si sottolinea, contestualmente, la cura ambientale come rinforzo delle proprie difese immunitarie: «a chilla casa nduvi ’un trasi llu suli, cci trasi llu mìadicu e llu cumpissùri» («in quella casa dove non entra un raggio di sole sopraggiungono prete e medico»), senza esagerare con gli sforzi fisici («s’a fatìga era bona l’ordinava llu mìadicu»), della serie: «chi si gurdau si sarvàu». In tutto questo bando alla malinconia, poi: «u ridìri fa beni alla salùti», quanta verità! Ed infine rammentarsi che «l’ugna fa rugna» («non toccare le ferite con le unghie, perché potrebbe portare infezione»), «l’acqua fa mali e llu vinu fa cantàri», «ppi llu catàrru vinu ccu llu carru» («per il raffreddore si abbondi con il vino»). Il segreto della longevità, per concludere!? «Fhàtti affari tùa e campa cìantu anni», ahahah! In tutto questo, Latino e Lametino rinforzano il sistema immunitario sociale, chi in un modo e chi in un altro, voglio sottolinearlo a memento!"

Lei è sempre molto dinamico e, da studioso a 360°, ha sicuramente in cantiere diversi progetti. Vuole anticiparci qualcosa al riguardo?

"Una Divina Commedia per canti selezionati in latino e lametino, metricizzati da esametri ed endecasillabi imperfetti in terza rima: è in dirittura d’arrivo e non nascondo le difficoltà con cui l’ho vista nascere di verso in verso. Mi ha fortificato lo spirito di vederla proiettata in divenire come atto di generosità verso un passato che non smette di appassionare gli uomini del domani. In questi lunghi cicli di anni la Macchina del tempo dà sempre ragione alla storia ed è per questo motivo che certe memorie resteranno per sempre eterne. Sono augurali e resteranno aurorali, Massimiliano carissimo!"

Francesco Polopoli

Alla salute dei classici: Come la cultura antica possa guarire i mali moderni, anno 2020, 272 pagine, ISBN 978-88-8238-190-5. Una pillola di sophia al giorno toglie un po’ di stupidità che ci sta intorno: «Basta un po’ di classico e la pillola va giù. Tutto brillerà di più!» (Mary Poppins). Avvertenze: si sconsiglia di leggere il saggio multivitaminico tutto d’un fiato. Può risultare indigesto. Pertanto, una dose/argomento per un max di 1 cpr x 3 volte/die, preferibilmente.

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