di FRANCO CIMINO
Silvia Romano è tornata. Con il piccolo aereo della presidenza del Consiglio è starà riporta a casa. Sono andati a prenderla uomini militarizzati dei Servizi Segreti del ROS e il direttore degli affari speciali del Ministero degli Esteri. È partita da un quartiere della buona periferia di Milano cinquecentotrentacinque giorni fa. Aveva abiti della gioventù occidentale quando ha preso il primo aereo per una regione dell’Africa, a cui voleva portare il cuore della generosità di chi pensa a se stesso come servizio al prossimo più lontano. Pantaloni chiari, maglietta scura aderente e a mezze maniche, viso bello e chiaro coperto soltanto da grandi occhiali da miope che non può rinunciarvi un minuto.
All’aeroporto di Ciampino, ieri nel primo pomeriggio, l’abbiamo vista scendere, scortata da due paladini giganti in tuta nera e il volto coperto, con una sorta di abaya, l’indumento femminile islamico, che copre quasi tutto il corpo, affinché nulla, specialmente spalle, gambe e viso, sia mostrato. Sarà rimasta più turbata lei che noi per lei, vedendo che tutti coloro che stavano ad attenderla nel piazzale avevano il volto coperto. Pure gli uomini e le più alte autorità. I motivi sono, purtroppo per noi, diversi da quelli che hanno motivato il suo nuovo abbigliarsi. “ Adesso mi chiamo Aisha, sono diventata islamica”, la prima dichiarazione affidata ai suoi primi “ liberatori” in quel di Mogadiscio, ultima regione di una delle diverse “prigioni”in cui è stata costretta durante questi lunghi diciotto mesi. Da una delle caserme dei carabinieri in Roma, dove è stata sottoposta al lungo interrogatorio per gli accertamenti di rito, sono filtrate altre cose. Le più significative: “Sono sempre stata trattata bene; non c’è stato alcun matrimonio o relazione; ero libera di muovermi nei luoghi dei numerosi spostamenti, ma controllata dai miei carcerieri”. E ancora: "Mi hanno assicurata che non sarei stata uccisa; mi sono convertita, liberamente e volontariamente, all’Islam a metà prigionia, dopo la lettura del Corano, il libro che avevo chiesto".
Ecco, io mi soffermerei, su queste due ultime affermazioni per capire quanto ci eviterebbe le polemiche divisive che sono già partite a razzo, tanto per non dimenticare l’abitudine italica a non perderci nulla di ciò che può avvelenare l’Italia anche nei tempi più duri delle varie emergenze. “ Mi hanno assicurata che non sarei stata uccisa”, il volto buono dei rapitori si mostra a conferma di ciò che probabilmente Silvia, di formazione “umanitarista” e terzomondista( altrimenti non si sarebbe spostata da casa a poco più che vent’anni per andare nei luoghi della sofferenza) ha immediatamente avvertito. Qual è la cosa più importante che un essere umano possiede e quale la paura più grande che possa mai sentire? La vita e la paura di perderla, evidentemente. Se ti trovi davanti, nella inaspettata condizione di maggiore pericolo, chi della tua vita dispone e nello stesso momento promette di ri-concedertela, il tuo cuore si apre alla speranza e il tuo pensiero di gratitudine verso il “ nemico”. Un nemico che non ce l’ha con te e te lo dimostra, facendoti vedere che la sua lotta, paradossalmente, è anche per la tua personale “liberazione” dalle forme di oppressione che i potentati impongono ai deboli della terra. Una lotta ancora più giusta e forte, perché è sostenuta da quel Dio, a cui tutto si dona.
“A metà prigionia mi sono convertita...”. Ecco, l’altro elemento importante. Metà prigionia sono nove mesi di lontananza totale dal tuo mondo e da quei riferimenti che offrono protezione e continue rassicurazioni “ esistenziali”. Sono tanti per sentirti prima abbandonata e poi progressivamente più lontana dal tuo mondo originario. Viene spontaneo cercarne un altro. Più facile se la nuova assicurazione te la trovi davanti tutti i giorni per tutto il giorno. Paradossalmente, la difesa di ciò che di supremo possiedi la eserciti attraverso quel trasferimento di te nell’altro, nel “nemico” a cui sempre più tendi a rassomigliare non tanto per farti da lui accettare, ma perché tu possa pienamente accettare lui. Se ci somigliamo, sembra sentirli dire in coscienza remota, non mi farai male. Io sono come te, non solo tu non sei il male ma io stesso sarò il bene. Sembrerebbe tutto questo percorso materia della Psicologia, che non da oggi definisce questo trasferimento emotivo e di personalità, quale sindrome di Stoccolma, parapatologia che non sto qui a spiegare tanto nota è. Non sempre, tuttavia, la trasformazione si muove dentro il terribile rapporto tra potente e debole, tra padrone e schiavo, sfruttatore e sfruttato, tra rapitore e rapito, carceriere e carcerato.
A volte c’è dell’altro che non è classificabile ancora perché non lo sappiamo decifrare e scientificamente catalogare. Metterlo in campo in attesa che le prossime settimane possano chiarire l’effettivo stato psicologico di Silvia e la sua autonoma capacità di confrontarsi con la sua vita precedente nella scelta della nuova, servirà a tutti per evitare maldicenze e cattiverie. Servirà, soprattutto, a chi dispone di un notevole potere di condizionamento della pubblica opinione, per evitare da subito un atteggiamento denigratorio verso una ragazza comune e quei facili processi in piazza e nei talk show della più brutta fattura. Servirà anche per evitare quelle guerre politiche interne, tanto stupide quanto pericolose in questo politica vecchia in cui, per una manciata di voti in più, non si guarda al dolore neppure per le trentaduemila vittime di questa terribile malattia ferocemente bellica. Se è stato pagato un riscatto( ed è stato pagato) e di quanto( saranno almeno tre milioni di euro) e della morale intorno all’uso che di questo denaro faranno i terroristi, ci sarà tempo per parlarne. E nella sede legittima del Parlamento. E della più becera teoria intorno alla domanda se sia giusto aiutare, con risorse dello Stato, i volontari che si recano in luoghi pericolosi per portare sollievo alle popolazioni sofferenti, è bene non dire affatto ché già il cuore degli umani si romperebbe. Al fine di invertire la tragica avvertenza secondo la quale si è italiani degni di commozione e pianto solo quando, per qualsiasi ragione, si torna in patria da morti, pensiamo a Silvia come una figlia che ritorna viva dalla sua famiglia e dai suoi genitori dopo una lunga attesa nel pericolo costante che potesse morire.
Pensiamo solo per un momento che al suo posto, solo per un momento, ci sia un nostro figlio, che Silvia si chiami, per un solo secondo, come una nostra figlia, facciamo questo prima di dire una sola parola. Infine, ricordiamoci una cosa. Una soltanto. E fermiamola nella mente. È questa: Silvia è una ragazza come tante altre, che a differenza di tante altre, ha lasciato la sua comoda città per recarsi in Africa ad aiutare i bambini a vivere un’infanzia meno dolorosa, umiliante e pericolosa. È andata in quei posti privi di tutto tranne che della fame e della violenza anche etnica, per salvare vite umane nei figli dell’umanità che dovrebbero essere figli nostri. Bene ha fatto il presidente del Consiglio a recarsi in aeroporto al suo arrivo. Gli ha portato il saluto grato degli italiani. Gliel’ha portato da italiano, manifestando la fierezza e l’orgoglio di sentisi tale per il sacrificio compiuto , a nome dei principi costitutivi della nostra Democrazia, da una cittadina del nostro Paese. Silvia, faccia della sua vita e della sua fede religiosa quel che vorrà.
Noi tutti, dinanzi a una Donna come questa, dobbiamo alzarci in piedi, toglierci il cappello ideale e farle un inchino di gratitudine e ammirazione. Oppure, restare in rispettoso silenzio. A volte è meglio non parlare.
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