di MARIA CLAUDIA CONIDI RIDOLA*
Parlare dei diritti delle vittime di reati gravi significa fare i conti con un’assurda discrepanza: da un lato c'è la normativa e la giurisprudenza consolidate che riconoscono immediati risarcimenti ai familiari di detenuti deceduti in custodia statale; dall’altro ci sono le famiglie delle persone vittime di violenza — in particolare del femminicidio o violenza domestica — costrette a barcamenarsi tra lungaggini, formalismi ereditari e ristori simbolici. Ho seguito in Corte d’Assise a Catanzaro il caso di C.C., una donna vittima per dieci anni di violenze da parte del proprio coniuge, che si era costituita parte civile insieme ai figli. Il reo era stato condannato in primo grado, ma prima dell’appello morì in carcere per un collasso cardiocircolatorio. Come nel caso di Sara Campanella, vittima di femminicidio, anche per C.C. l’unica via rimasta per ottenere un ristoro è quella del Fondo per le vittime dei reati intenzionali violenti (L. 7/7/2016 n. 122), risorse che, pur esistendo, restano standardizzate, spesso insufficienti, e subordinano il diritto al risarcimento all’accettazione dell’eredità, cosa che i suoi familiari, nullatenenti, non possono fare.
Quanto emerge da queste due vicende non è un dettaglio, ma una falla intollerabile nel sistema. Se il suicidio o la morte del detenuto in carcere costituiscono un’occasione per lo Stato di rispondere con immediato risarcimento — com’è avvenuto nella Cassazione civile, sez. III, ordinanza n. 30985/2018, che ha affermato la responsabilità penale della sorveglianza carceraria in caso di suicidio prevedibile , o nella recente Cassazione n. 29319/2024 che ha confermato la condanna per omessa assistenza psicologica —(caso di suicidio avvenuto nel carcere a Vibo Valentia ), le vittime di violenza domestica ed i loro familiari finiscono in un limbo, privi di un debitore effettivo contro cui agire direttamente: l’erede non è entrato in possesso dell’eredità, dunque manca chi possa rispondere civilmente, imponendo tempi lunghi e ingiuste attese.
Non solo: la sentenza Cassazione civile, sez. III, n. 29826/2024 ha ribadito che persino in caso di morte per assunzione di droga di un detenuto — evento causato anche da omissioni nella vigilanza — sussiste la responsabilità dell’amministrazione penitenziaria . Dunque lo Stato è responsabile anche quando la morte non è opera diretta del detenuto ma è conseguenza di carenze strutturali nella gestione penitenziaria. In virtù di ciò, appare paradossale che — mentre lo Stato resta solidalmente responsabile nella morte in carcere — chi subisce violenza non possa trovare uguale tutela, anzi resta prigioniero delle logiche del diritto successorio.
La Corte di Cassazione ha poi tracciato un principio fondamentale: il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita è un diritto assoluto e autonomo, che non necessita né di consapevolezza da parte della vittima né di riconoscimento successorio — è previsto ex se — e merita una tutela piena . Un principio che, tuttavia, rimane lettera morta se non accompagnato da strumenti legislativi che permettano di applicarlo, specialmente nei casi di femminicidio e violenza domestica.
Il contrasto tra i due casi, quello di Sara Campanella e quello di C.C., è evidente nella pratica. Nel primo, i genitori di Stefano Argentino, autore del femminicidio suicidatosi in carcere, possono invocare l’art. 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e ottenere un risarcimento per la mancata vigilanza penitenziaria. Nel secondo, una donna vittima di violenze per dieci anni da parte del proprio coniuge, che si era costituita parte civile insieme ai figli, si è trovata di fronte a un paradosso giuridico: alla morte del condannato in carcere per collasso cardiocircolatorio, senza che i suoi eredi abbiano accettato l’eredità, la possibilità di ottenere un risarcimento diventa estremamente incerta e dilatata nei tempi.
Si crea così un evidente squilibrio: la famiglia del colpevole dispone di un canale diretto per rivalersi sullo Stato, mentre la vittima e i suoi figli, nonostante anni di violenze subite, devono affrontare un percorso accidentato, fatto di formalismi e lungaggini, che spesso vanifica i principi fondamentali sanciti dagli articoli 2, 3, 13, 27 e 32 della Costituzione, oltre che dall’articolo 2 CEDU. Una giustizia che, nella sua applicazione concreta, appare capovolta: più pronta a riconoscere il diritto alla vita e alla dignità di chi la vita l’ha tolta, piuttosto che di chi se l’è vista strappare o distruggere attraverso anni di soprusi-
In concreto, la vittima è costretta a rivolgersi al Fondo per le vittime dei reati intenzionali violenti, con somme predeterminate e tempi procedurali lunghissimi, oppure a intraprendere un giudizio civile per quantificare il danno contro eredi che non hanno titolo né interesse a rispondere.
Questo divario non è accettabile in uno Stato che si pretende garante di diritti inviolabili, come sancito dagli articoli 2, 3 e 27 della Costituzione. Servono strumenti normativi che permettano alle famiglie delle vittime — e alle vittime stesse — di chiedere risarcimento anche quando l’imputato non sia più in vita, superando l’impasse ereditario; analogamente a quanto avviene in casi di terrorismo o vittimologie speciali, sarebbe opportuno avere un fondo ad hoc per femminicidio e violenza domestica, con procedure snelle e un obbligo di Stato a risarcire senza condizioni formali.
Solo riconoscendo il femminicidio e la violenza strutturale di genere come categorie giuridiche autonome e garantendo un risarcimento diretto e reale ai familiari delle vittime, potremo sanare questa ferita profonda nel sistema di tutela dei diritti.
*Avvocato
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