di M.CLAUDIA CONIDI RIDOLA *
Con la sentenza n. 2099/2024, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha fissato un principio fondamentale: il contributo del collaboratore di giustizia non deve essere decisivo, ma utile.
È sufficiente che le dichiarazioni fornite siano effettivamente impiegate nel processo e risultino utili all’accertamento della verità, anche se parziali o non determinanti.
Ho ottenuto questa importante pronuncia grazie al ricorso che ho presentato nell’interesse della mia assistita S.M.P.P., moglie di un collaboratore di giustizia. La Corte d’Appello di Reggio Calabria aveva inizialmente negato l’attenuante speciale, ritenendo insufficiente l’apporto offerto. La Cassazione ha annullato quella decisione e, in sede di rinvio, la Corte di merito si è adeguata al principio, riconoscendo finalmente il beneficio.
Inneggiare alla malavita è tollerato, collaborare con la giustizia è delegittimato
La Cassazione ha chiarito una distinzione essenziale: il reo confesso, che ammette soltanto la propria responsabilità, non è sullo stesso piano di chi, con dichiarazioni etero-accusatorie, rompe l’omertà e chiama in causa terzi. Quest’ultimo affronta rischi ben maggiori, sia sotto il profilo processuale – perché sottoposto a valutazioni di credibilità soggettiva e oggettiva – sia sul piano personale e sociale. Per questo, chi assume questo coraggio deve essere premiato più di chi si limita a confessare se stesso.
La verità non ha bisogno di eroi, ma di utilità
Il principio espresso dalla Suprema Corte è chiaro: non conta la decisività del contributo, ma la sua utilità concreta. Ho sostenuto con forza questa linea nel mio ricorso: la collaborazione non può essere valutata soltanto in base alla sua incidenza risolutiva, ma in base alla capacità di apportare elementi effettivamente utilizzabili nel processo.
Mentre sui social si esalta la mafia, la Suprema Corte difende chi collabora
La mia soddisfazione per questa sentenza non è solo professionale. Oggi, mentre sui social network e in certa cultura popolare si moltiplicano i messaggi che esaltano l’omertà e la criminalità organizzata, questa pronuncia rappresenta un segnale di civiltà: chi aiuta la giustizia, anche solo con un piccolo contributo utile, deve essere protetto e valorizzato, non isolato o screditato.
Basta con la passività dello Stato: la legalità va difesa anche fuori dalle aule
Lo Stato, però, non può restare fermo. Così come esiste una legge che vieta e punisce l’apologia del fascismo e il vilipendio delle istituzioni, allo stesso modo dovrebbe essere vietato e sanzionato l’inneggiamento alla criminalità organizzata. È intollerabile che chi collabora con la giustizia si senta delegittimato, mentre altrove si permette di celebrare e normalizzare l’illegalità. La legalità deve essere difesa non solo nei tribunali, ma anche nella società e nella cultura.
La sentenza n. 2099/2024, ottenuta grazie al ricorso che ho presentato per la mia assistita S.M.P.P., rappresenta un punto di svolta: chi rompe l’omertà, anche con un apporto minimo ma utile, va premiato e tutelato. È un messaggio che riguarda tutti: la lotta alla criminalità non si vince soltanto con i processi, ma anche con il coraggio di chi sceglie la verità e con la responsabilità delle istituzioni che devono sostenerlo.*
*Avvocato
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