di VINCENZO AGOSTO*
Un silenzio imbarazzato, a volte irreale, è piombato da parte degli intellettuali, dei professionisti, dei commentatori e della politica tutta in merito alla situazione di detenzione carceraria che affligge ormai da cinque mesi l’Avv. Giancarlo Pittelli.
Questo “silenzio intellettuale”, come brillantemente lo ha definito un amico Collega e giornalista, probabilmente interessato da parte di alcuni, non può a questo punto che essere interrotto per comprendere non già la fondatezza o meno delle accuse che vengono mosse all’imputato poiché quelle del diritto penale, della procedura penale e dell’ordinamento penitenziario non sono materie di cui mi occupo nella mia vita professionale, ma per ragionare intorno all’uomo e per individuare nel Collega Pittelli il simbolo dell’esercizio del potere dello Stato, che, così come utilizzato in questa fattispecie, si traduce in uno strabismo processuale e nella chiara negazione di diritti, mentre ci si dimentica, evidentemente, che in una democrazia un diritto trascurato per un solo essere umano, corrisponde alla negazione dei diritti di tutti.
Ecco quindi la ragione per la quale proverò in questo mio articolo a sollecitare la riflessione di ognuno sulla condizione di un singolo uomo, provando a non fare risaltare l’Avvocato e il politico stimato, ossequiato e ascoltato, non già per dimenticare tali qualità, ma solo perché, spogliato di tali peculiarità, sia visto esclusivamente come un essere umano, accusato di “concorso esterno in associazione mafiosa” (reato poi riqualificato dal GIP in “associazione a delinquere di stampo mafioso” e nuovamente riqualificato dal Tribunale della libertà nel precedente capo d’accusa) e detenuto in carcere, nonostante le plurime richieste avanzate dai suoi difensori di commutazione della misura cautelare.
In questa mia analisi tenterò perciò di essere obiettivo ed equilibrato, di non farmi condizionare dal rapporto di colleganza, né a sottopormi, alla stessa maniera, all’idea di chi, per citare Kafka, ritiene che ““doveva aver fatto qualcosa perché una mattina fu tratto in arresto””. Per questa disamina ho dovuto dunque in qualche modo documentarmi sul reato contestato e ho così reperito un articolo di giornale del Prof. Giovanni Fiandaca, giurista tra i più fini e autore di un testo di diritto penale sul quale si sono formate e continuano ancora oggi a formarsi generazioni di studenti di giurisprudenza, che parzialmente trascrivo “”il concorso esterno, pur essendo uno strumento irrinunciabile per aggredire la cosiddetta “zona grigia”, rientra nel novero degli istituti più discussi del diritto penale. Non soltanto perché esso è abbastanza complicato già da un punto di vista tecnico-giuridico. A renderlo divisivo, polemogeno al punto da provocare ricorrenti guerre di religione nel circuito politico-mediatico è il fatto che questa imputazione, com’è noto, per lo più coinvolge imputati “eccellenti”, vale a dire politici, imprenditori o professionisti che hanno molto da perdere anche in seguito alla semplice apertura di un’indagine per un fatto così discreditante come la contiguità mafiosa. […] Il vero problema sta però nel fatto che nel caso del concorso nel reato associativo la questione diventa più complicata, e lo diventa perché questo tipo di reato ha una struttura assai più indeterminata a confronto di altre classiche figure criminose come l’omicidio o il furto e simili. Come intendere il concreto ed effettivo “contributo causale” alla vita o al rafforzamento di un’associazione criminosa, che, secondo le sezioni unite della Cassazione, costituisce il fondamento della punibilità del concorrente esterno? Per esemplificare: è sufficiente, perché si verifichi un rafforzamento dell’associazione, che un politico prometta un singolo appalto a un singolo mafioso, oppure è necessario dimostrare che l’appalto non solo è stato conseguito ma ha avuto per effetto di avvantaggiare l’intera organizzazione? Ancora più radicalmente, nell’ottica di un teorico del diritto è legittimo chiedersi: fino a che punto la “causalità”, quale categoria che ha a che fare con la realtà naturalistica, funge da paradigma adatto a concettualizzare le relazioni di reciproco favore che si instaurano tra le organizzazioni criminali e i loro sostenitori o fiancheggiatori esterni?””.
Se dunque il fattore determinante per individuare la fattispecie criminosa consiste nel “”contributo causale””, significa che questo reato viene in essere quando è stato fornito un apporto concreto, specifico, consapevole e volontario che abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione, per cui si dovrà fornire una prova complessa tanto del fatto che quel comportamento abbia rafforzato l’intero gruppo criminale, quanto in merito al particolare dolo del concorso esterno. Non conoscendo quanto riportato nell’ordinanza di custodia cautelare, né gli atti processuali finora compiuti, mi permetto però di rilevare che prove di questo genere non possono che essere sottoposte al vaglio del dibattimento all’interno di un intero procedimento giudiziario al fine di comprendere tutte le dinamiche complessive non già quelle del singolo imputato, ma piuttosto di tutti coloro i quali siano stati coinvolti nell’operazione, perché la formazione della prova in dibattimento e nel contraddittorio delle parti sono imposti dall’art.111 della Costituzione.
Opinare diversamente comporta un inammissibile strabismo processuale, una devianza dal codice di rito in cui il ruolo della pubblica accusa si traduce nell’anticipazione del giudizio e, sostanzialmente, in una sentenza, senza la celebrazione di alcun processo. Proprio oggi Giorgio Spangher, professore di procedura penale, ha pubblicato uno scritto in cui precisa che “”con la “complicità” dello spostamento del baricentro del processo nella fase delle indagini e del recupero del precedente investigativo a dibattimento, il potere processuale del pubblico ministero si è esponenzialmente rafforzato, integrato dalla visibilità dell’azione svolta dagli uffici della pubblica accusa in sinergia con l’attività della polizia giudiziaria, di cui dispone. […]. Non può non segnalarsi che, a fronte del consapevole e voluto gigantismo dell’accusa, il giudice delle indagini non si è attrezzato difettandogli spesso gli strumenti processuali per costituire un adeguato ribilanciamento dei ruoli e delle funzioni. L’ufficio dell’accusa è di fatto fuori da un vero controllo processuale […]. Questa distribuzione del potere processuale fa male al processo, alla sua funzione, anche perché la debolezza del giudice lo attrae inevitabilmente nella stessa logica del potere più consolidalo e strutturato, in qualche modo ulteriormente legittimandone le funzioni e le attività””.
Ecco dunque che viene in essere la questione per cui “”il diritto in generale, e più nello specifico la giustizia penale implicano complessi bilanciamenti tra valori, diritti ed esigenze di tutela spesso in conflitto: per cui continue operazioni di ragionevole bilanciamento si rendono necessarie tanto sul piano della politica legislativa, quanto su quello dell’interpretazione e applicazione delle norme. […] Persiste in particolare sul versante dell’antimafia una ideologia belligerante da “diritto penale del nemico”. […] Orbene, sta proprio in questo approccio similguerresco l’intrinseca e sostanziale incostituzionalità dell’estremismo antimafioso””, per citare nuovamente Giovanni Fiandaca e lo scritto apparso due giorni fa su “Diritto di difesa”, rivista dell’Unione delle Camere Penali Italiane.
Posta la correttezza di quanto detto, basato su alcune pronunce della Corte di cassazione penale e sugli scritti di alcuni tra i più insigni giuristi italiani, appare consequenzialmente evidente che mancano i presupposti per proseguire nella detenzione carceraria, visto che oramai il presunto potenziamento dell’associazione, si sarebbe già consumato, mentre l’eventuale reiterazione del reato e la possibile fuga, possono essere evitate tramite una misura alternativa alla detenzione. Del resto, annientare un essere umano tramite una detenzione carceraria che dura ormai da moltissimi mesi, demolendone la vita e la salute, avvilendone la professionalità e il senso dell’onore personale, gettando tutto ciò nella fornace della gogna di Stato, senza la celebrazione di un processo, senza considerare le richieste della difesa, ottundendo così il senso morale, l’intelletto e la discussione, a me pare sia un fatto grave e inaudito, qualunque sia il soggetto coinvolto.
Ecco perché questo scritto tende a un sommovimento dell’anima e mira a dare acutezza, brillantezza e vivacità a un dibattito che oggi più che mai deve riportare sui binari costituzionali del giusto processo il rapporto tra difesa e accusa, tra diritti e negazione degli stessi, perché oggi è l’Avvocato Pittelli a trovarsi in questa condizione, ma domani chiunque potrebbe trovarsi ad affrontare medesime situazioni, senza avere ancora e nuovamente la possibilità di difendersi in un processo in cui le prove sono già preventivamente formate, nel quale l’organo giudicante soggiace a quello requirente e le sentenza paiono già scritte con la sola conclusione delle indagini.
*Avvocato
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