"Caro Giudice,
mi è venuta voglia di scriverti una lettera in questa calda settimana di agosto.
Ieri sono stato in Corte e tutto mi è sembrato magnificamente irreale.
Le aule vuote e silenziose, la polvere che comincia ad accumularsi sugli scranni, il silenzio nei corridoi.
Ho respirato a lungo e senza tensioni in quelle aule, come non ho mai fatto. Sono venuto a cercarti nella tua stanza, ma l’unico cancelliere in servizio mi ha detto che eri già in ferie. Mi era venuta voglia di condividere con te la leggerezza di quest’atmosfera galleggiante, quando, lontani dalle incombenze dell’anno giudiziario che ci siamo lasciati alle spalle, tentiamo finalmente di riemergere dalla bolla e tornare a respirare.
Avremmo potuto parlare, a sentenza già emessa, della storia di Lorenzo, l’uomo accusato di omicidio che hai assolto tre settimane fa.
Tu ed i giudici della Corte che presiedevi mi avete visto indossare sotto la toga il mio abito più nuovo, perché l’ordine mentale che esige una difesa simile deve accompagnarsi sempre all’estremo decoro.
Ma non sai con quanta fatica ho indossato quell’abito quella mattina, quando raccoglievo i pensieri preparandomi, e sentivo il nodo della cravatta stringere sempre più i sentimenti angoscianti che mi pervadevano.
Dovevo rimanere lucido, avevo lavorato per mesi a questo caso, e non potevo risparmiarmi nella difesa di quest’uomo, invischiato in un “pasticciaccio” alla Gadda, in una matassa così difficile da sbrogliare e da sapere interpretare secondo il diritto.
Ho avuto il destino di Lorenzo nelle mani per oltre un anno, mentre tu te ne sei occupato nelle cinque udienze del processo, in cui hai conosciuto altre decine di “Lorenzo”, vite e sorti di cui decidi ogni giorno.
Quanto è difficile per te avere il peso di decisioni che si scontrano con le tue convinzioni morali, sociali e personali? Come fai, quotidianamente, a spogliarti di quei miasmi di umana debolezza e imboccare scelte che scriveranno, nero su bianco, le storie degli uomini che giungono al cospetto del tuo giudizio?
Quando penso a quell’enorme fardello che porti mi vengono in mente le fatiche di Sisifo che per l’eternità doveva spingere il gigantesco masso.
Eppure, nonostante, la fatica, appari ai miei occhi come Cristo nel Giudizio universale di Michelangelo, che con il palmo della mano alzato assegna la salvezza o l’eterna
condanna alle anime, in un’aura di divina autorevolezza.
Quando al tuo cospetto difendo un imputato intrappolato nelle insidie della miseria umana, additato dalla pubblica accusa come un turpe criminale senza scrupoli, mi aiuta sapere che da quella parte c’è l’incarnazione di uno dei più nobili e antichi poteri dello Stato, quello giudiziario, di cui tu sei verbo. Ed è da questa convinzione che riesco a trarre la forza nell’assistere e conquistare la fiducia di chi sceglie di affidarmi la sua vita, se so che di fronte a me c’è il Giudice che temo, rispetto e onoro, e che non dimentica mai di essere uomo, come me… come Lorenzo".
Aldo Truncè – Avvocato
Al Giudice Raffaele Lucente, magistrato del Tribunale di Crotone, nell’imminente
secondo anniversario della sua scomparsa
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