L'intervento di Cleto Corposanto. Relazioni complicate. La pandemia Covid19 e il danno sociale della malattia

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images L'intervento di Cleto Corposanto. Relazioni complicate. La pandemia Covid19 e il danno sociale della malattia
Cleto Corposanto
  17 settembre 2020 11:54

di CLETO CORPOSANTO*

Leggo i titoli in questi ultimi giorni, ascolto interviste e sento previsioni – anche diverse tra loro – sulla fine della pandemia. Medici, biologi, virologi, politici: tutti impegnati a tentare di dire (o di promettere) quando finirà. Discorsi parziali.

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Storicamente, si distinguono due momenti conclusivi per le pandemie: la fine sanitaria, quando cioè crollano l’incidenza e la mortalità, e quella sociale, quando sparisce la paura dovuta alla malattia.  Oggi, in una situazione non del tutto chiara, in attesa di vaccini e/o farmaci che contrasteranno il virus, chiedersi ‘quando finirà tutto questo’ significa essenzialmente domandarsi quando arriverà la conclusione sociale. E’ evidente che le tempistiche possono essere anche molto differenti: in altre parole, può accadere che la fine non arrivi perché l’epidemia è scomparsa, ma perché la popolazione si è stancata di vivere nel panico e ha imparato a convivere con la malattia. 

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Da questo punto di vista, la storia è maestra. Pur senza andare molto indietro nel tempo rievocando le epidemie di peste di molti secoli fa, come dimenticare la cosiddetta spagnola del 1918, e le molte altre che l’hanno seguita? L’influenza aviaria di Hong Kong del 1968, per esempio, che provocò la morte di un milione di persone in tutto il mondo, centomila delle quali negli Usa. Anche in quel caso, come quest’anno, le vittime furono soprattutto anziani. Oggi quel virus circola ancora come influenza stagionale, ma quasi nessuno ricorda più il suo devastante impatto iniziale e la paura che ne conseguì. 

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E non si può ovviamente non ricordare il caso dell’HIV, il più famoso finora dei virus Corona, lo spillover scimpanzè-uomo ricostruito egregiamente nel suo bellissimo libro da David Quammen. Ha terrorizzato per decenni la popolazione mondiale - e lo fa ancora – e alla fine la gente, con il virus, ha imparato a conviverci, in attesa di un vaccino sempre pronto ad essere prodotto “a breve”, ma che in realtà non è mai arrivato.

In questi scenari pandemici o endemici, con malattie facilmente trasmissibili per vie aeree, le relazioni personali sono importanti. Più importanti di quando le malattie non ci sono. Anche se per lo più sono complicate. Ne abbiamo avuto tutti contezza durante il lockdown, che ha rappresentato improvvisamente – tutti o quasi confinati a casa – un fantasmagorico, immenso laboratorio d’analisi sociale, nel quale i ricercatori hanno potuto osservare (come accade di solito ai colleghi delle scienze dure, abituati a situazioni di laboratorio controllato) comportamenti e risposte dettate da uno stile di vita per lo più sconosciuto alla gran parte delle generazioni. Una situazione unica e irripetibile (fortunatamente, mi vien da dire).

La sensazione, insomma, è che per la prima volta – come nel caso dei quanti nella grande rivoluzione scientifica avviata anche grazie ad Heisenberg – la teoria non metta in evidenza come i fatti sociali si manifestano a noi ricercatori (o a qualsivoglia sistema di osservazione) ma come si manifestano punto. Come sono nella realtà. E quindi come i soggetti, le persone  interagiscono. A prescindere dalla ricerca eventualmente messa in cantiere.

Che le relazioni fossero importanti non lo abbiamo certo scoperto ora. La novità – relativa pure quella come vedremo – sta forse nella considerazione della centralità proprio delle relazioni nel concetto di salute inteso nella sua globalità.

Lasciatemi fare due esempi solo apparentemente molto lontani fra loro, prima di affrontare l’aspetto del danno sociale che secondo me chiude il cerchio su una visione a tutto tondo del pensiero scientifico. Il primo esempio è riferito a Nagarjuna, monaco buddista indiano, filosofo, uno dei capisaldi della filosofia indiana, vissuto nel II secolo. La tesi centrale del suo pensiero e dei suoi insegnamenti, in estrema sintesi, è che non ci sono cose che hanno esistenza in sè, indipendentemente da altro. Nulla esiste in sé, tutto esiste in relazione ad altro. Il termine usato da Nagarjuna per denotare la situazione di assenza di esistenza indipendente è Vacuità: nel senso che tutto esiste non di per sé ma perché è in relazione con altro. Altrimenti, appunto, le cose sono vuote, se non esistono in relazione a, nella prospettiva di.

Il secondo esempio, solo apparentemente molto distante, è invece legato al concetto di quanti che ho già ricordato, di una teoria che a partire dalle geniali intuizioni di alcuni fisici – Heisenberg su tutti, con il suo principio di indeterminazione – ha permesso di comprendere gran parte della cose che accadono nella vita sul nostro pianeta (e anche oltre…)

Il nucleo centrale della teoria è la scoperta che le proprietà di ogni cosa altro non sono che il modo in cui la stessa cosa influenza le altre.

Se una cosa “non ha interazioni, non influenza nulla, non agisce su nulla, non attira , non respinge, non si fa toccare… sarebbe come non ci fosse”. Chiarissimo.

La teoria dei quanti è, insomma, la teoria di come le cose si influenzano. E questa appare ad oggi la migliore lettura possibile. Non solo nel mondo della fisica ma anche in quello della psiche e della persona. Certamente nelle connessioni bio-psico-sociali della salute. Discorso che andrà approfondito altrove.

Restringiamo il terreno d’azione. Detto del ruolo importante delle relazioni, che le stesse siano centrali anche nella valutazione del danno della malattia, lo vado dicendo da tempo.

Nel 2008, al termine di una lunga ricerca qualitativa sulla valenza del danno sociale della malattia, ho parlato per la prima volta di Sonetness a caratterizzare più dettagliatamente la valenza complessiva della malattia. L’ho fatto pensando ad un modello, l’Esa model appunto, nato come riflessione e specificazioni successive a partire dalla nota Triade di Twaddle (Disease-Illness-Sickness) e dalle successive integrazioni di Antonio Maturo (con gli sdoppiamenti di Illness e Sickness). Ho lavorato a lungo su comunità di intolleranti alimentari (soprattutto celiaci) e il risultato principale delle mie ricerche sulla valutazione del danno percepito dai pazienti nei confronti della propria patologia è stato proprio l’evidenziare un aspetto della malattia strettamente connesso alla riduzione di possibilità di intrattenere rapporti e relazioni sociali. Questa parte del danno percepito ho appunto chiamato Sonetness non riuscendo a collocarla in nessuna delle 5 dimensioni pre-esistenti dei modelli esistenti. Mai avrei pensato che un aspetto che ha preso forma dagli studi sulle malattie correlate all’alimentazione avrebbe trovato un terreno così fertile in un aspetto apparentemente così lontano qual è appunto una pandemia. Un evento che ha drasticamente ridotto le nostre capacità di relazioni sociali, al di là dei benefici certamente ascrivibili in questa situazione alla rete, ai social network, all’e-learning a cui quasi tutti – potendo - abbiamo fatto indistintamente ricorso. Quello di cui tutti abbiamo comunque sentito il bisogno è stato proprio il poter riprendere quella vita di relazioni che ci appartiene, che ci caratterizza in quanto animali sociali, che in qualche modo ci aiuta a combattere una malattia che dal punto di vista del danno biologico che può provocare è certamente pericolosa.

Ecco che allora la Sonetness esprime molto bene questa sofferenza da carenza di relazioni sociali che caratterizza la vita durante la pandemia. La distanza fisica ci ha imposto una assenza di socialità reale che entra di diritto a far parte del danno provocato dalla pandemia (al di là di ogni discorso futurista sull’uso delle reti informatiche in luogo delle relazioni sociali, giacché non potremo mai diventare tutti hikikomori e soprattutto viste le attuali disuguaglianze anche in tema di digital divide e di dotazione di strutture di reti). Il problema allora diventa la ricerca del punto di equilibrio fra danno sociale e danno biologico, in questa lotta perenne fra virus e Sonetness perché ci si possa relazionare senza contagiarsi.

Come finirà il covid-19, e che eredità ci lascia? Per riprendere il discorso con quanto detto in apertura, è possibile che nel caso del Covid-19 la conclusione sociale della pandemia arrivi prima di quella medica. Le persone potrebbero stancarsi delle restrizioni al punto da “dichiarare” conclusa la pandemia anche se il virus dovesse continuare a colpire la popolazione e prima che siano disponibili un vaccino a una cura [e in questo senso le recenti vacanze estive, in Italia e all’estero, e l’aumento delle posizioni negazionistiche vanno proprio in questa, deprecabile direzione].

Con il peggioramento delle condizioni economiche dovuto al virus, un numero sempre maggiore di persone sentirà di averne abbastanza dei regimi di confinamento e di limitazione delle libertà relazionali. Le autorità sanitarie puntano alla conclusione medica, ma molte persone hanno in mente soprattutto la conclusione sociale.

Considerate le pericolose ripercussioni che la distonia può esercitare proprio sugli aspetti sanitari della malattia, gli interventi possibili da parte dei decisori pubblici dovranno quindi tendere a salvaguardare, con ogni sforzo, il mantenimento di una situazione di “relazioni sociali possibili” anche al fine di evitare derive negazioniste o rischiose semplificazioni negli approcci. Così come l’eredità della pandemia su scuola e lavoro può essere considerata in parte positiva, per aver avviato una grande riflessione su modalità, tempi e luoghi possibili per lo svolgimento dell’attività formativa o di quella lavorativa, va insomma costruita la possibilità di favorire e mantenere aperta la necessaria vita dei rapporti sociali di ciascuno, sia pure in una situazione monitorata. Le relazioni sono salutari. Sono salute.

*intervento tenuto in occasione del Convegno nazionale “Vivere nell’emergenza. La società italiana e il servizio sanitario nazionale
di fronte alla pandemia da Covid19” organizzato da AIS – Sociologia della salute e della medicina, 14 Ottobre 2020

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