di DOMENICO BILOTTI*
Molti ovviamente rimarcheranno che né il Partito Democratico né il Movimento CinqueStelle possano definirsi in iure proprio partiti della sinistra. E lo capiamo: chi ha governato con la Lega non passa indenne davanti al setaccio della stretta coerenza politica.
E però c’è un dato sostanziale: i due partiti vanno ad abbracciare un orizzonte di senso che declina, per quanto mal digerite, parole che provengono dalla tradizione della sinistra.
Lo ha fatto il Partito Democratico che dal 2007 ad oggi mai aveva condotto una campagna elettorale così progressiva sui temi di ambiente, prestazioni sociali e diritti civili; lo ha fatto ciò che resta dello stato maggiore grillino ormai soppiantato dall’ex presidente Conte.
Compreso che nel voto popolare a destra non ci fosse più alcuno spazio percorribile (lì chiara l’egemonia di Giorgia Meloni), si è giocato una campagna di promesse e rivendicazioni su reddito, assistenza sociale (anche assistenzialismo), addirittura disarmo in politica internazionale.
E magari nell’offerta politica da sinistra ci fosse stato solo questo! Nella coalizione del centrosinistra, ad esempio, c’era il cartello rosso-verde tra Sinistra italiana e ambientalisti. Un cartello, in realtà, la cui consistenza numerica è inchiodata a una forchetta tra il 3 e il 4%: quello che più o meno hanno raccolto tutti gli aggregati simili nei decenni, dall’Arcobaleno fino alla lista Tsipras.
Stavolta il valore aggiunto, ma il duo Fratoianni-Bonelli non lo ammetterà, era costituito dall’organicità a sinistra col PD: perché le altre volte si era soli, oggi si poteva contare – e lo dimostrano alcuni collegi e alcuni nomi – anche su quel voto in uscita dal Partito Democratico che voleva restare in un perimetro di coalizione.
In più, col campo di Letta (tanto largo, no), c’era “+Europa”, un partito che su molti temi rielabora la tradizione radicale: europeismo federale, garantismo, diritti civili, approccio liberal all’economia ma non del tutto sordo agli ammortizzatori sociali. Che sia contestabile o meno, quella tradizione appartiene alla storia della sinistra italiana liberale e di minoranza.
Fuori, addirittura, dal campo lettiano, si faceva spazio, più con la voce che coi numeri, una “Unione Popolare”, nata per emulare l’omologa francese, ormai vera portavoce della sinistra transalpina ben oltre il 20%, qui affidata all’ex pubblico ministero e sindaco napoletano e terzo posto alle regionali calabresi Luigi de Magistris, arenatasi molto sotto il 2%.
Bisogna essere onesti: in Francia quel progetto ha funzionato, perché era da almeno un decennio chiara la crisi dei riformisti e socialmente voluta una presenza di sinistra che, anche a costo di semplificazioni atroci, si portasse il fregio di un voto di massa. In Italia gli attori ancora non ci sono e ci permettiamo di dire che una coalizione di sinistra antisistema guidata direttamente dalla Collot di Potere al Popolo avrebbe forse ottenuto un successo più cospicuo, più cristallino, meno promittente e più barricadero.
Poco da dire sull’operazione terzopolista (e quarta arrivata, invero) del duo Renzi-Calenda: bravissimi Gian Burrasca della conferenza stampa, ma che del voto di sinistra hanno preso soprattutto gli alloggiamenti organizzativi scippati all’antico insediamento del PD, da cui in tempi diversi si sono scissi.
Insomma: chi ci ha capito qualcosa? Chi è riuscito a produrre una istanza coesiva di racconto per riforme e urgenze dell’Italia? È esistito un filo conduttore o esso s’è smarrito per sempre? Più che fare oggi le pulci al voto a Fratelli d’Italia (sul quale, scorrendo i titoli, la stampa estera è di gran lunga più critica di quella nazionale, sovente proclive ad accogliere gli eroi del giorno), la necessità politica è tutta fornire una risposta a quelle tre domande.
Domenico Bilotti - docente universitario
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