di DOMENICO BILOTTI
Il governo appena formatosi giunge agli onori delle cronache parlamentari in odor di plebiscitarismo, ma in realtà la dorsale dei suoi posti e punti chiave è ben piantata, direzionata e riconoscibile. È un esecutivo che guarda all’Europa e alle ingenti e inedite risorse che soffiano da Bruxelles: andranno restituite, ma è sempre aria fresca e che fa gola. Mettere ordine era fondamentale, darsi una linea ancora di più (e, infatti, molto più difficile). È un esecutivo che tiene insieme una maggioranza composita, dove tutti giocano a far vedere smussati i propri limiti di approccio politico e cultura istituzionale. Un esecutivo con poche donne, e nemmeno pochissime, ma in Italia è così un’abitudine che forse le donne stesse sono ormai annoiate di essere considerate come soprammobili da mettere sul piatto monco di una bilancia rotta. E certo donne sono in ruoli qualificati, funzioni da imbottire con contenuti, non bandierine del risiko di genere. C’è poco Mezzogiorno, non c’è Calabria. Ci sono importanti atenei universitari del Nord Italia rappresentati nel percorso di formazione dei ministri, ma non c’è una riflessione di sistema sulle enormi potenzialità di sviluppo, perequazione sociale, intelligenza e conversione economico-produttiva insite nell’università. Rammarica dirlo, ma è un governo che se tanti pregi si vede riconosciuti alcuni difetti tuttavia ricalca pedissequamente da quello che sta manifestandosi come orientamento di gestione degli stanziamenti europei. Tanti, mai visti qui e ora. Gli obiettivi arrancano, però, perché sin qui siamo ai capitoli di spesa (e nemmeno), ai titoli, alle voci di lemmario, ma far bene la spesa non significa dividere i denari disponibili in ortaggi, medicinali o proteine, bensì scegliere quali ortaggi, quali medicinali, quali proteine.
La pandemia doveva insegnarci una cosa, e non ce l’ha insegnata, né a noi né alla “governance” politico-finanziaria del pianeta. I cataclismi del presente si risolvono curando il passato e investendo sul futuro. Nella sanità non serve indicizzare somme immobili che magari arrivano ai territori spolpate dai troppi passaggi della filiera: serve ripotenziare la struttura locale della cura, in modo fitto, capillare, presente. Quasi ossessivo. E forse si deve tematizzare bene come creare centri di eccellenza con le intelligenze disponibili in ambiti che mano a mano acquisiscono crescenti importanza e gravità (enumeriamo, senza esaustività: virologia certamente, e non meno oncologia, disturbi respiratori, alimentari, biologia cellulare). E serve dannatamente più istruzione, più università. Chiamateli partners o competitori, ma gli Stati che hanno maggiori risorse hanno più laureati dell’Italia. Il titolo si consegue prima e c’è pure una mentalità della formazione post-universitaria che non è né parcheggio, né rinvio alle calende greche della possibilità di conseguire un reddito. Piuttosto, apprendimento progressivo che “lavora” competenze specifiche necessarie all’andamento collettivo.
In questo governo, in questa Europa, Calabria e università ce ne stanno finendo a piccoli, piccolissimi tocchi, marginali, quando non del tutto assenti. A invertire la rotta possono essere le realtà che si caricano sulle spalle la responsabilità e l’assennatezza dei propri compiti. Negli atenei calabresi studiano, in percentuali non troppo diverse da altre regioni, giovani stranieri dei Paesi più rappresentati nella demografia studentesca: per ragioni di contiguità geografica, Europa mediterranea e in parte orientale; per ragioni di numeri e tendenze generazionali, persino nipponici e cinesi. Possiamo rinforzare l’attrattiva che i nostri atenei hanno sulla popolazione studentesca di fuori regione e di fuori nazione? Ed essa quanto è legata all’attrattiva che riusciamo ad avere, in tempi peraltro di attacco al risparmio delle famiglie e di limitazioni agli spostamenti, verso gli studenti del territorio che invece scelgono di percorrere altri lidi e altre strade? Potrà mai esistere un pieno e vero, formale, “Erasmus” del Mediterraneo che unisca, fuori dai vincoli delle loro organizzazioni sovra-regionali, i Paesi dei tre continenti che si affacciano sul “mare chiuso”?
Bisognerà tornare a riflettere, se non per abrogare almeno per superare e ripensare, su una serie di questioni. Il numero chiuso e i test di ingresso con graduatorie mano a mano centralizzate hanno portato al Sud ragazze e ragazzi che forse non avrebbero mai come prima scelta voluto studiare e lavorare nelle nostre sedi universitarie. Quel meccanismo coattivo ha creato piccole, meritorie, isole virtuose: le lasciamo nel vuoto o le fortifichiamo? E sol perché si è indirettamente prodotto anche molto di interessante rinunciamo a riragionare, a ripensare, su una serie di questioni assolutamente cruciali: l’orientamento degli studenti delle medie superiori, il riassetto dei percorsi di specializzazione e dei titoli post-lauream, la riduzione dei costi di accesso senza bisogno della mentalità palliativa dei sussidi occasionali, la riapertura secondo ragione di palestre collettive del pensiero critico come sono e dovranno essere le aule?
Dei veri “Stati generali”, senza retoriche ma con punti concreti indicati dettagliatamente e la voce diretta di chi fa e partecipa l’università, secondo le varie professionalità, età, occupazioni, forse si rivelerebbero dispersivi o ingovernabili o ben che vada concertativi. E però tanto s’è provato sbagliando male, provare con metodo per arrivare a piccole cose giuste non è detto sia un peccato.
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