L'intervento. Maurizio Alfano: "Un Paese di pavidi"

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Maurizio Alfano
  16 maggio 2020 15:07

di MAURIZIO ALFANO 

Un Paese ancora una volta senza coraggio alcuno, incapace di assumere quelle scelte che fondano l’idealità di uno Stato preferendo ciò, che al contrario, l’affondano. Pavidi, incapaci di affondare una volta e per tutte nella pancia di questo Paese il bisturi sociale per operare tutte quelle operazioni di giustizia, umanità e sussidiarietà essenziali alla vita di ognuno di noi. Ed invece ancora una volta pavidi, come struzzi, abbiamo nascosto la testa per non vedere. Abbiamo insabbiato l’evidenza, mentre il cuore però che nessuno può distrarre è sempre lì a dirci qual è la cosa giusta da fare. Ed allora penso oltre che pavido questo è un Paese anche senza cuore, aldilà della stucchevole elemosina che fa a  se stesso, che al di là della carità cristiana che a cicli alterni manifesta, di cui sono sicuro persino Cristo oramai né ha abbastanza poiché lui predicava giustizia e non elemosina, diritti e non commiserazione che sono tutt’altra cosa dalla mancata comprensione dei fatti che a noi si parano innanzi e che rinneghiamo come novelli Giuda Iscariota. Una cosa è la cooperazione, tutt’altra cosa la beneficienza. Una cosa è creare processi di indipendenza e sviluppo, tutt’altra cosa è regalare ciò che qui non serve per creare nuove dipendenze altrove.

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Ecco risultare evidente che questo Paese oltre ad essere pavido, senza cuore è incapace di comprendersi e per questo incapace di discernere il bene dal male, la verità dalla menzogna. Incapace di distinguere la resilienza dall’arroganza che quasi sempre fa il paio con l’ignoranza che la anima ed incarna in tutte quelle frasi, che seppur prive di senso originano consenso, nel mentre affermano il principio della morte del diritto naturale e dello stato di diritto. Un’involuzione del concetto di umanità forse senza precedenti.

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Un Paese imbarazzante quello che a tanti ragazzi al loro diciottesimo anno di vita continua a dire tu non sei cittadino italiano, mentre lo rimane chi, andato via da oltre trent’anni, non ricorda una parola di italiano, non ha nessuna intenzione di ritornare qui, lavora e paga le tasse nel Paese straniero dove si trova bene. Ed invece mentre chi  lavora, paga le tasse, nasce qui, rimane di contro quasi sempre straniero a vita, peggio rimane un negro, un extracomunitario, un ladro o prostituta, e quasi sempre terrorista. Pavido un Paese che non riconosce la propria prole aldilà del colore della sua pelle. Pavido un Paese che rinnega la sua progenie. Pavido un Paese che scaccia i suoi figli, li persegue, inferiorizza. Incapace di partorire una legge come lo Ius soli che riconosca il diritto di cittadinanza nel posto in cui nasci, siamo ancora animati e ci muoviamo invece nel Ius sanguinis dove si incarna la purezza del sangue per appartenere ad una razza piuttosto che ad un’altra. È  legato al sangue questo Paese, come il sangue dei morti nei campi di sterminio dei diritti per raccogliere quello che ogni giorno consumiamo comodamente sulle nostre tavole mentre gli altri, i negri, ritornano poi, nelle baraccopoli con dieci euro in tasca dopo aver pagato il caporale ed aver fatto dieci – dodici ore di lavoro in condizioni disumane, tra mille sevizie e molestie se penso poi al lavoro sfruttato delle donne straniere ed italiane.

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Pavido un Paese che non sana una piaga come quello del lavoro nero che riguarda bianchi e neri, italiani e stranieri, mentre tra i primi si nascondono anche quelli però che la possibilità e non necessità del  lavoro in nero diventa per loro un secondo lavoro, una terza entrata. Sono essi, non i migranti, un danno per gli italiani. Pavido questo Paese che  non ammette che nel campo della raccolta delle produzioni agricole e delle giornate agricole si annida uno dei più imbarazzanti modi di generare reddito in maniera impropria ed illegale come gli scandali legati alle false giornate agricole e perseguita di contro gli ultimi tra gli italiani assieme ai migranti nascosti per paura di diventare visibili. Pavidi, miseri, poiché è l’invisibilità che abbiamo loro destinato giuridicamente e socialmente diventando spesso essi stessi, i migranti, terreno di scontro ideologico, tirati da una parte e dall’altra, mentre loro vorrebbero stare semplicemente al centro dei diritti come qualsiasi altro essere umano e nient’altro.

Ed invece li regolarizziamo a tempo, come le produzioni che devono raccogliere. Appiccichiamo loro un codice a barre giuridico che a volte ha una conservazione della sua integrità inferiore alle stesse produzioni che raccolgono. Si chiama in maniera impudica, sanatoria quella che è poco più di una regolarizzazione che risponde non ad un principio di umanità e passione giuridica, poiché se le leggi non sono esse stesse animante da giustizia, passione civile, che leggi sono? Risponde questa regolarizzazione ad una precisa necessità di mercato interno e per mantenere quote di mercato estero e per questo abbiamo bisogno di un ulteriore mezzo di produzione e trasformazione delle merci  da sfruttare a tempo e finita la loro funzione sono da smaltire nelle novelle discariche umane popolate da eserciti di manodopera di riserva, scarti umani, corpi a perdere, prodotti non solo da un sistema capitalistico onnivoro, ma anche dalla nostra mostruosa e crescente indifferenza verso tutto ciò che ci riguarda e che non comprendiamo come tale.

Il diritto del debole, non è un diritto debole, eppure è questa oramai la modalità di approcciarsi alla tenuta dei diritti universali che diventano sempre più terreno di scontro ideologico per dividere l’umanità dalla sua corporeità, scindendola in cellule cieche incapaci di riconoscersi nella loro funzione essenziale alla vita di ognuno. Pavido un Paese che usa parte della sua gente come merce da sfruttare rubandogli anima e diritti. Pavido un Paese che non ama se stesso, ma solo parte di esso e che si fa matrigna.

 

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