L'intervento. Vanni Clodomiro: "Il trasformismo ieri e oggi"

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Vanni Clodomiro
  04 settembre 2020 16:17

di VANNI CLODOMIRO

Quando si parla di trasformismo, oggi ci si riferisce a quei parlamentari, e rappresentati politici in genere, che, con una certa facilità e per opportunismo personale, cambiano disinvoltamente partito o addirittura schieramento politico. Ma questo non è trasformismo: è un semplice cambio di rotta, tipico, come mi piace definirli, dei saltimbanchi della politica. Chi invece lo considera trasformismo, mostra chiaramente di ignorare la politica italiana, e anche la Storia d’Italia. Insomma, si tratta di un colossale errore di comprensione di cosa veramente sia stato quel fenomeno nella nostra storia nazionale.

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Il vero trasformismo era in realtà tutt’altra cosa. E su questo credo sia necessario, oltre che utile, aprire una riflessione seria. Perciò, bisogna parlare di quello che più o meno tutti conoscono come il trasformismo della seconda metà dell’Ottocento: fu una prassi parlamentare, inaugurata nel 1876, quando, caduta la famosa Destra Storica, salì al potere la Sinistra, con Agostino Depretis come Primo Ministro: egli cercò appoggi di uomini singoli, sia della Destra che della Sinistra (che in realtà era un Centro), accelerando in qualche modo l’avviata dissoluzione dei partiti tradizionali, fondendoli in un unico programma liberale progressista. Ai nomi storici tante volte abusati e forse improvvidamente scelti dalla topografia dell’aula parlamentare, egli sostituì un’idea comprensiva, popolare: «Noi siamo, o Signori (così concludeva il famoso discorso elettorale di Stradella, l’8 ottobre 1882), un ministero di progressisti».

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Sparì così, nel nome di quella vaga idea, atta a comprendere e a confondere in sè le più diverse politiche, la possibilità di una lotta «regolare» imperniata sul contrasto di due partiti nettamente distinti, il moderato e il democratico, l’uno al potere l’altro all’opposizione, ciascuno sorvegliando l’altro e impedendogli di trasmodare, destinati ad avvicendarsi al governo secondo l’opportunità e le esigenze nazionali, come avveniva (o si pensava che avvenisse) da secoli nel Paese della libertà, l’Inghilterra. Il fenomeno è passato alla storia col nome spregiativo di «trasformismo», «brutto vocabolo di più brutta cosa... (scrisse il Carducci nel Don Chisciotte di Bologna il 4 gennaio 1883).

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Non meno preoccupati del poeta, si dimostrarono i politici per un sistema che, sotto il pretesto della concordia nazionale, affogava ogni contrasto di idee in una serie di espedienti, annullando qualsiasi fede se non nel successo del momento, e obbligando i governanti a continui sforzi di acrobatismo parlamentare, a disgustanti compromessi che favorivano l’indebolimento del carattere.

Infatti, nell’83 Zanardelli e Baccarini, inaspriti dall’ormai ufficiale rinuncia del Depretis ai puri ideali della Sinistra, uscirono clamorosamente dal Ministero, formando il primo nucleo di un’opposizione costituzionale che divenne poi, con l’aggiunta di altri capigruppo di Sinistra, Cairoli, Nicotera e Crispi, la famosa pentarchia.

Oggi la leggenda di un demiurgo Depretis, mescente in Montecitorio vari elementi chimici in una fantasiosa forma di alchimia, in cui avrebbe avviluppato parlamento e Paese impedendo la formazione di seri e consapevoli partiti, è caduta.

In effetti, Depretis non fece che sanzionare la scomparsa dei due partiti storici, fondendoli in un unico programma liberale progressista, erede di quanto era ancor vivo degli ideali del Risorgimento. Semmai, la sua opera giovò, indirettamente, a valorizzare l’importanza e a stimolare la vivacità combattiva dell’Estrema Sinistra in formazione.

Tuttavia, lo stesso Crispi, dopo aver definito il trasformismo un «incesto parlamentare», accettò il ministero degli interni nel gabinetto della Camera, chiamando al governo, secondo l’opportunità, uomini di Destra e di Sinistra.

Anche Giolitti avrebbe voluto due partiti ben distinti, ma se i partiti non ci sono, disse alla Camera il 7 dicembre 1891, «non possiamo crearli noi artificialmente, come se fossimo in un’accademia».

Per Giolitti quel trasformismo equivaleva a «buon senso», consapevolezza, cioè, dei limiti entro i quali le idee e le dottrine possono avere «una ragionevole e benefica applicazione».

Simile, sostanzialmente, il punto di vista del Croce: «Perché gli Italiani avrebbero dovuto tendere tutti i loro muscoli per tenere in alto i cartelli di Destra e Sinistra, trascurando le importanti cose che quelli non rappresentavano o rappresentavano in modo assai fiacco?...» . E in ogni caso Depretis fu il miglior uomo di governo che seppe esprimere l’Italia negli undici anni in cui egli dominò la vita politica e parlamentare.

A questo punto, però bisogna sottolineare con forza un fatto preciso: nessuno di quegli uomini politici, di Destra o di Sinistra, pur disposti di buon grado alla collaborazione, a prescindere dallo schieramento di appartenenza, si sognò mai di, come si suol dire oggi, “cambiare casacca”. Ognuno di loro rimase fermo nella sua parte politica.

In verità ci fu un solo caso, a fine secolo, nel 1897, ma si trattò di un personaggio singolare: Gabriele D’Annunzio, deputato estetizzante, passò clamorosamente, non senza una punta teatrale (come del resto era sua consuetudine) dalla Destra alla Sinistra, esclamando: “Vado verso la vita”.

Dunque, quale fu l’effetto dell’ascesa della Sinistra al potere? Di fatto, nonché rendere più salda la compagine di quel partito e del suo opposto, e più deciso il distacco, cancellò le linee distintive, che prima c’erano o sembrava che ci fossero.

E allora, se è così, se il trasformismo non fu che l’espressione stessa delle necessità politiche del tempo, se anzi ogni politica è (in tempi tranquilli) trasformismo, in quanto rappresenta sempre il frutto di accondiscendenze e di compromessi transazioni accordi con le forze esistenti e col corso delle cose, perché la taccia di trasformista pesò a lungo dopo l’esperimento del Depretis, e pesa ancora oggi nella vita politica italiana, da noi e fra gli stranieri, come indizio di una pieghevolezza, priva di ideali, in cui sarebbero compressi, mortificati e traditi gli impulsi morali della buona gente, per cedere il posto alla corruttrice dittatura di furbi e autoritari parlamentari? Evidentemente, sembra più logico pensare che queste e consimili accuse elevate in ogni tempo non siano espressione di un vero e proprio giudizio puramente politico, ma piuttosto di sentimenti e di aspirazioni di uomini generosi insofferenti della meschina realtà di fatto, cui sovrappongono la parvenza di un’Italia diversa, dell’Italia dei loro sogni e perciò capace di designare deputati pensosi degli interessi pubblici, anziché sollecitatori di favori privati; di un’Italia condotta da politici severi e volti al bene comune, preoccupati di fondare e rassodare un vero autogoverno del popolo italiano. Sentimenti e aspirazioni che, se non sono politica attuale, potrebbero, forse valere soltanto a seminare i germi di quella avvenire.

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