L'intervista/ Il presidente nazionale di Confassociazioni e Anpib, Angelo Deiana: "Ci stiamo svegliando da un sogno e ci siamo accorti che il mondo era globale"

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Il presidente nazionale di Confassociazioni e Anpib, Angelo Deiana
  09 maggio 2020 10:06

di FRANCESCO IULIANO

«Credo che questa pandemia stia colpendo un po’ tutti. Dai dati che ci arrivano, da una stima molto prudente, si ipotizza un calo del Prodotto Interno Lordo, vicino al 3 per cento globale. Numeri che ci dicono che, alla fine, non ci sarà nessuno che avrà vinto o che avrà perso. Ma, al di là di questo, ritengo che in questa emergenza  ci saremmo aspettati un cambiamento verso un approccio “green”, con una maggiore attenzione all’ambiente e verso quei processi che avrebbero messo in evidenza competenze e digitalizzazione. Tutti ci aspettavamo una “spinta gentile” come quella del premio Nobel per l’Economia, Richard Thaler. Invece abbiamo avuto il calcio del film “Inception” di Christopher Nolan. Ci stiamo svegliando da un sogno e ci siamo accorti che il mondo era globale e che in questo momento ci sono circa 3miliardi e mezzo di persone che fanno “economia della conoscenza” scambiando dati ed informazioni in rete, pur essendo in lockdown».   

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Parte da questa riflessione, una breve chiacchierata con il numero 1 di Confassociazioni e Anpib, Angelo Deiana, da molti considerato tra i maggiori esperti di economia e dei servizi finanziari e professionali in Italia. Pochi minuti, ma sufficienti per avere un’analisi obiettiva e competente del difficile momento che si sta vivendo.

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C’è un modo per limitare i danni provocati da questa crisi economica, che poi, non è stata altro che una conseguenza di quella sanitaria?

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«No. Non c’è un modo. Noi eravamo abituati a crisi che si propagavano da un settore all’altro come fossero dei brutti mali. La finanza del 2008 si è prepodiata al mercato delle imprese che poi ha generato crisi sul mercato del lavoro. In quel tempo c’era la possibilità di intervenire. Come in tutte le logiche di propagazione hai il tempo per provare ad intervenire. Quello che è capitato questa volta è stato un vero e proprio infarto globale. L’unico modo per sopravvivere e non per limitare i danni, è quello di dare liquidità ossigeno e sangue al sistema imprenditoriale ed alle famiglie affinché sopravvivano. Anche l’uscita dalla Fase 1 e l’ingresso nella Fase 2, non sarà semplice».

Cosa è mancato o cosa non è arrivato dalla politica nazionale e da quella europea?

«I soldi. Bisognava trovare una misura non convenzionale. Bisognava dare soldi subito nei conti correnti di tutti, forse anche con qualche limitazione di reddito. Il governo ha costretto per due mesi le persone a stare a casa, continuando, però, a consumare ed a fare altre cose. Le imprese, inoltre, hanno continuato a sostenere le normali spese di gestione senza avere ricavi. Per cui le misure del governo, seppure giuste, hanno peccato in una cosa:  la messa a terra. Da ex ufficiale dell’Aeronautica militare, dico sempre che “volare è bello ma atterrare è tutto”. Nel senso che nessuno sa mettere l’aero a terra. Anche le task force, sono tutte composte da persone con curriculum specchiati. Peccato che nessuno di loro abbia mai messo le mani nel fango. C’era invece bisogno di persone che rappresentassero la capacità del pilota a mettere le ruote a terra. Se le banche devono valutare il merito di credito di un’azienda, è naturale che ci impieghino 60 giorni».

Lavoro agile, smart working. Cosa cambia da domani nel privato e nella Pubblica  amministrazione?

«Questo è un campo dove, effettivamente, non sarà più nulla come prima.  Il tema dello smart working non è quello del telelavoro. Lo smart working è un processo di valutazione proprio da economia della conoscenza. Persone che devono lavorare per raggiungere determinati obiettivi. Questo rompe tanti schemi. Tutta la contrattualistica, ad esempio, è basata sul concetto di paga oraria che, in realtà non esiste più. Molte persone, in questo periodo, non sono riuscite a fare smart working, vuoi perché a casa non avevano un pc adeguato vuoi perché non disponevano di una connessione idonea. Inoltre, si è aggiunto il tema della didattica a distanza. Poniamo il caso che in una famiglia ci siano tre figli. In questo caso è difficile far conciliare le esigenze di tutti. Chi userà il computer? Qualcuno si dovrà adattare con lo smartphone? Questo ci dovrebbe far riflettere su due conseguenze strutturali: i dispositivi informatici sono da considerare i nuovi occhiali. Sono gli strumenti che danno diritto all’accesso. Devono perciò essere detraibili. Lo Stato deve dare un incentivo. E poi c’è l’impatto forte di questo esperimento globale di digitalizzazione che, inevitabilmente, porterà ad una modifica delle strutture abitative che, in questo momento, non sono fatte per vedere una contemporanea presenza tra il lavoro e la gestione della famiglia».

Cosa pensa della rete che, in questa crisi,  ha messo in atto il suo più grande esperimento sociale?

«Questo è stato il più grande esperimento sociale della storia. Non era mai successo che tante persone, tutte insieme facessero la stessa cosa a livello globale. Anche le guerre mondiali avevano le loro isole felici. Invece questo vissuto è stato un esperimento globale. Più di 4 miliardi di persone in lockdown di cui oltre 3 miliardi connesse».

Anche le università non sono uscite indenni da questa crisi. Qual è il ruolo che dovranno interpretare in futuro?

«Un ruolo straordinariamente importante perché l’economia della conoscenza ha dei punti di concentrazione. La conoscenza si scambia. I dati che ci arrivano, dicono che la mappa del contagio non segue le filiere manifatturiere, ma segue le autostrade e si sviluppa di più nelle grandi città. Si consideri che 40 città del mondo, le più importanti, fanno il 30 per cento del Pil mondiale, il 90 dell’innovazione, pur occupando solo il 3 per cento del suolo. Nelle città si concentra tutto. Si concentrano le relazioni. La conoscenza si scambia attraverso le interazioni. Ecco perché nelle città ci sono stati più contagi. Perché ci sono state più interazioni».

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