di BRUNO GEMELLI
Lo scrittore-medico Santo Gioffrè, presentando il suo ultimo libro a Catanzaro nella libreria di Paola Tigani Sava, “Evasioni d’amore” (Castelvecchi, 2024), nel terzo dei suoi cinque racconti che compongono il nuovo lavoro, ha descritto, fra l’altro, le sofferenze della madre.
Si legge a pagina 59: «Passava da uno stato di relazioni normali ad un repentino e drammatico abbassamento del tono dell’umore. Io la vedevo raggomitolarsi e stringersi in un angolo. Notavo i suoi bellissimi occhi spegnersi e il suo sguardo perso. Guardava il silenzio e ascoltava il buio. La chiamavo: “Mamma, mamma”. Lei mi guardava e non gli apparivo. I nomi dei suoi figli stavano altrove, dentro il dramma del suo malessere. L’insonnia la torturava. Stava, la notte, su una sedia accanto al suo letto, al buio, dentro un inferno affollato da mille angosce. Le sue periodiche crisi, che mi accompagnano ancora e per sempre, persino oltre la sua morte, portavano il canto di una poesia malinconica, implorante, pietosa, ma dolce per me, perché in quei momenti io mi sentivo ancora più figlio per stringerle quelle mani madide di sudore e baciarla tra gli occhi persi dentro chissà quale abisso. Occhi neri, bellissimi che durante quelle perdizioni brillavano come il riflesso che danno le acque di agitato fiume colpite da uno spicchio di raggio di sole verso sera.
Mio padre la portò dai migliori neurologhi. Negli anni tra il 1955-57, fu ricoverata presso la casa di cura neurologica Villa Nuccia.
“Oh dolce madre a pensar, adesso, le tue sofferenze, non trovo alcuna parola o pianto adatto”».
E qui Gioffrè ha aperto una parentesi ricordando all’attento pubblico che, in quel periodo, nella stessa casa di cura, era ricoverato il poeta Lorenzo Calogero, morto suicida il 1961 all’età di 51 1nni. Quella Villa Nuccia [di Catanzaro] che rimanda al ricordo dei Quaderni scritti da Calogero; la cui poetica fece dire ad Eugenio Montale: «Accostarsi alla sua poesia è un’ardua impresa perché in lui la parola è del tutto spogliata del suo contenuto semantico e ridotta a semplice segno(...). Fu dotato di uno reale temperamento poetico ed è quindi da escludersi un abbaglio da parte di coloro che oggi vogliono rendergli l’onore che gli fu negato in vita. Calogero ha lavorato per molti anni in un incrocio di tendenze, rifiutandole tutte per non impoverirsi, interamente posseduto dal demone dell’analogia, della similitudine (...). Questo poeta costituzionalmente incapace di vivere, si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti, non tanto espressioni quanto emanazioni del suo ribollente mondo interiore. Certo se scoprissimo la chiave di quell’intrico di rapporti ben altra evidenza assumerebbe una poesia in cui è, sicuramente, “un’idea dell’essere come tremore, terrore, catena di eventi fulminei, rotti, casuali” e sostanzialmente “più una fisiologia che una calligrafia”».
L’ultima fatica dell’Autore appare, secondo la sua migliore cifra narrativa, intimistica con venature storiche.
Nei cinque racconti di questa raccolta, Santo Gioffrè si disperde nel labirinto dei propri ricordi, risale il corso periglioso e insieme struggente di esistenze segnate dalla fatica, dal desiderio del riscatto e dalla forza tenace dell’amore. Si intrecciano memorie, paure ancestrali in terre (la Calabria e Napoli, tra le altre) spesso arse dal sole agostano, nelle quali risuonano campane di chiese, grida d’aiuto, risate. O nelle quali infuria la guerra che svuota le case e frantuma le speranze. Momenti che l’autore fotografa con scrittura precisa e partecipazione emotiva, capace di far scintillare anche la desolazione, l’ingiustizia sociale, di guardare il silenzio e ascoltare il buio, esattamente come facevano gli occhi neri e bellissimi di sua madre.
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