Luigi Chiarella e il suo Risto Reich

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images Luigi Chiarella e il suo Risto Reich

  23 giugno 2025 17:15

di NINA FABIANI

"Realtà culturali, mondi lavorativi diversi per un testo significativo e significante. Luigi Chiarella ha incontrato un pubblico attento e partecipe al suo Risto Reich durante l’iter che, attraversando la penisola, si è concluso a Catanzaro Lido, poco meno di un mese fa: un dialogo mediato da Maria Giovanna Loiacono, Avvocato del Lavoro, dove ha ritrovato la “sua” Calabria, la ”sua” Gente.

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Presentazione meritevole di più ampia risonanza per la qualità della scrittura ma soprattutto del tema trattato, a Fahrenheit si è parlato di “un corrosivo romanzo working class”, che interessa e continuerà a coinvolgere tanti giovani, le loro famiglie, la nostra Terra destinata, nelle aree interne più che altrove, allo spopolamento e alla desertificazione.

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Per saperne di più bisognerà leggere il libro, una insolita autobiografia “a tempo” e “a luogo” dove è impossibile non lasciarsi coinvolgere dai moti dell’anima dell’autore che spaziano e si alternano tra livelli diversi di essere in attesa di un concreto divenire.

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Da fiume a fiume

Panta rei

“Bloccare tutto, guardarsi in faccia e uscire insieme per strada”

Fine. Come, ti chiedi, finisce qui? Allora torni alla copertina e in un lampo afferri il senso compiuto e completo del testo, anche quello che la scrittura veloce, scorrevole e, nelle sue pieghe, amara, ha celato.

L’Italiano, terrone, costretto a imparare una lingua “altra” e quel mestiere che confessa ironicamente di aver svolto solo al Momus, è lì nella fantastica grafica, essenziale e opportunamente colorata.

I poco raffinati “padroni” non riusciranno mai, leggendo – se ritenuto necessario – il suo curriculum, ad associare il locale alla pucciniana Bohème. Dopo tutto a che serve un curriculum ricco di esperienze soprattutto culturali quando l’imperativo categorico è “vendi vendi vendi… Gira gira gira…”

Il senso di tutto sta lì nell’infilata di tavoli dove solo, di spalle, “il cameriere” si accinge a dare seguito alle comande. È sempre lo stesso impeccabile cameriere, al quale un rozzo proprietario chiede di levarsi l’orecchino, che deve muoversi e correre tra quelle due rette parallele ma… S’incontreranno all’infinito? Geometria euclidea? Prospettiva di Piero? Al protagonista basterebbe che in ogni locale coincidessero tempi “umani” e retribuzione congrua.

Si ha la netta sensazione che tra i colori dominanti, il rosso e bianco dell’infinito, l’uomo-cameriere di Protagora, debba soccombere sotto il peso del quotidiano, una strada obbligata, un girone infernale.

Il rosso ha il sopravvento sulle note di bianco; stretti e costretti il nero, il grigio e quel tocco azzurro immobili compatti cristallizzati nell’imperativo categorico, veloce veloce veloce, che non ammette riflessioni. È un caso? I colori sono gli stati d’animo di Luigi? Scardinati e dirompenti come il linguaggio dei tanti colleghi di lavoro, la babele di idiomi dominati da sud e isole. Aggressivi come i tanti “padroni”, uomini e donne, manipolo di gentucola dalla quale doversi difendersi continuamente prima di affrontarla. La costruzione estetico-grafica, vero e proprio incipit concettuale, risponde perfettamente all’architettura emotiva del protagonista: sostiene quella “non biografia” ma corale racconto di uomini, cose, fatti, luoghi. A voci e mugugni, pressanti richiami minacciosi e ricattatori, al sovrapporsi di rumori e suoni fanno eco generi e forme letterarie diverse, dettate da eventi e soggetti, dal teatro – che Luigi conosce bene – all’intervista, ai monologhi.

Arrrrabbbiato, sempre di più, pagina dopo pagina, l’autore descrive “dolori” e disagi quotidiani perché la platea dei suoi lettori prima e la collettività poi possano conoscerli, condividerli, affrontarli.

Già quel numerare e definire ogni capitolo “Movimento” dal “Primo al Quinto” induce a riflettere: il “Quarto” soprattutto con la citazione della lettera di Giuseppe Verdi a Clara Maffei. E ci si chiede che cosa possa esserci di nobile o musicale nei vari Cip&Ciop, nei Pitbull se la sola musicalità, dissonante, è quella delle interviste lampo dove si consumano idee esperienze e considerazioni degli addetti ai lavori.

I protagonisti reagiscono con la stessa lucida consapevolezza di Luigi quando a Filippo La Porta, sul palco del festival Working Class di Campi Bisenzio, ha risposto senza nascondere emozione e rabbia: il pubblico attento e partecipe ha apprezzato tanto da pretendere la lettura di una pagina del suo Risto Reich, un momento in cui ha esercitato il suo “mestiere”, l’attore. Hanno lasciato il segno le sue parole e il suo viso “pulito” che un autore-attore, occasionale cameriere per necessità, potrebbe aver smarrito lungo il viaggio tra due punti diametralmente opposti perché… non è facile partire dalle pendici della Sila dove tra strapiombi, sabbiose strette sponde e piccoli appezzamenti un tempo irrigui, coltivati dalla e per la famiglia, scorre il Corace  …

e arrivare

al Danubio

il cui nome evoca storia e cultura assolutamente diverse, la belle Epoque, l’operetta, la caduta degli Dei, la grande Berta, il gucciniano fumo lento.

Due fiumi accomunati nel passato da dolorosi ricordi, nel presente da forme migratorie mai immaginate: due storie entro cui scorre il dovere esistere e resistere. Panta rei, tutto scorre, proprio come i due fiumi, ma non tutto passa senza lasciare il segno.

Vienna è la location della storia che Luigi porge ai suoi lettori, come lista dei vini o menu, con lo stesso istrionismo delle sue performance teatrali, ma lavorare in un ristorante è dover recitare quotidianamente un copione altrui con la sola finalità dell’incasso, del guadagno altrui. Si macinano chilometri in palcoscenici ridotti, sale sovraffollate anguste impregnate di odori e umori, spazi esterni troppo freddi o afosi, pari alla lunghezza del fiume “blu” o al corso del Corace percorso almeno 60 volte.

L’autobiografia è un genere letterario difficile da amare quando subentra il timore di doversi far carico delle problematiche dello scrittore senza poter scegliere il personaggio identificativo del lettore.

Il lavoro di Luigi fuga questa paura: si resta piacevolmente sconvolti davanti ai tanti “io” che si incontrano e scontrano nelle pizzerie ristoranti bar che l’autore è costretto a conoscere. Sono esperienze dettate dalla necessità di vivere, quelle che l’autore definisce tristemente bollette.

Danubio e Corace scorrono e corrono verso gli estuari, le corse di Luigi non prevedono foce.

E mentre tutto si incardina e scardina tra tavoli proprietà di italiani sul suolo viennese, mentre montano desiderio di rispondere alle arroganze e ai soprusi con la dirompenza di una fiumara, sommatoria di anni, esperienze culturali, ideali politici e spessore umano, c’è l’altro fiume carsico che scorre nell’attore principale: il desiderio di tornare là dove scrive “…continua a vivere…” la sua parte migliore. È lo spicchio di mare che lambisce gli affetti, dove “riposano navi e veleni, corpi e speranze”. La sua Itaca dove tornare, da cui dover ripartire. Se la sua guerra sono le battaglie per la sopravvivenza, il suo sogno è oltrepassare le colonne d’Ercole per approdare su un suolo stabile, teatro o altro, in compagnia della sua Penelope e dei suoi Argo. Non Odisseo in fuga, dunque, ma nostoi, come certezze dell’essere e del divenire mentre tutto intorno scorre. I nostoi propri dell’intimo fiume lungo cui i ricordi rotolano e battono i massi, un Corace in piena, non un livello di innalzamento danubiano. Basta una pentola fumante per fare esplodere e risentire i profumi ancestrali custoditi dalla nonna. E così, nel peggiore dei contesti lavorati, nei rimestii di anima e corpo che spesso si affidano all’arte per non soccombere, esplode una poesia difficilmente immaginabile. 

E ce ne costa lacremme sta merica cantavano a inizio secolo i migranti sui bastimenti e potrebbero ancora cantare i compagni di lavoro e “di avventura” di Luigi, mutuando il testo… perché non sempre si deve attraversare l’oceano per piangere – anche senza lacrime – la casa, la famiglia, gli affetti.

Basta al protagonista affacciarsi sul Danubio, durante una delle sue passeggiate in compagnia dei suoi cani e volgersi a Ovest e più giù a Sud-Ovest, chiudere gli occhi e spalancare il cuore ai ricordi: alle colline presilane, al Corace che corre verso il glauco Ionio per soffrire. Nel calderone dei ricordi sobollono con l’amarezza dell’incerto presente e dell’ancor precario futuro, ricordi profumati di minestra, non la tagessuppe, ma quella che in Calabria si chiama minestra “maritata”, ricca nei suoi pur poveri ingredienti.  Luigi sa di aver scoperto, inconsapevolmente e forse prima di altri, che essere vegetariani, o quasi, era la normalità nella tradizione culinaria della nonna. L’adulto rivive e coccola il bambino di ieri con la stessa tenerezza dell’ava la cui minestra non era solo un semplice pasto.

C’era in quella, e nel ricordarla, la ricchezza di un mondo soffocato da egoismo, apparenza, ferite inferte con crudeltà consapevole o ignara; quel mondo, nella sua versione III millennio, vorrebbe ritrovare e migliorare mettendosi e rimettendo tutto in discussione, rimboccandosi ancora le maniche senza dimenticare che nelle steppe sferzate dal vento dell’ignoranza flora e la fauna sono un ecosistema difficile e delicato.

Ma l’ormai cresciuto Luigi sa dove rifugiarsi per trovare conforto e sollievo: una biblioteca e dei gattopardi da rileggere, un Rothko, un Manet da fruire con gli occhi dell’anima senza alzare la voce o imprecare in idiomi appropriati alla rabbia che implode.

Perché è importante arginare lo sdegno con la forza della libertà che consente di denunciare le storture dei sistemi. Impossibile contabilizzare, col palmare, quanto sia sufficiente o valido, non lo sarebbe neanche per i maneggioni della ristorazione che ne impongono l’uso per gonfiarsi le tasche di banconote.

Un libro di denuncia? Sì. Pagine per voltare pagina umanamente e socialmente, homo homini lupus. Testo di riflessione? Sì. Perché politica e la fallita globalizzazione adombrano altri muri, altro filo spinato".      

 

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