di MARCELLO FURRIOLO
100 anni fa S.Agata del Bianco dava i natali a uno dei suoi figli più illustri, Saverio Strati,
che ha raccontato con verità, poesia e coraggio la Calabria dei “ lazzaroni ” e degli ultimi, che hanno dovuto cercare lontano da questa terra la speranza di un futuro per i propri figli fatto di sacrificio, sofferenza e profonda dignità.
La sera del 22 marzo 1985 passeggiavo con il grande scrittore per le strade della città alla ricerca della “sua” Catanzaro.
All’indomani, in consiglio comunale Gli avremmo conferito la Cittadinanza Onoraria, privilegio che prima di Lui avevamo attribuito al Premio Nobel Renato Dulbecco.
Era una di quelle serate che preannunciano un’ estate pervasa di tutti gli umori della campagna, il profumo dei gelsomini frammisto a zagare e oleandri.
Saverio mi ricordava che Catanzaro di notte è di una bellezza struggente, melanconica e traslucida di memorie che scivolano sulle vecchie case, come la pioggia sui vetri, sradicate dalla mente come foglie ingiallite e senz’anima. Il corso con le sue luci a mezzi toni, i palazzi segnati dal tempo e da stretti vicoletti semibui, in cui si annida la gente come celata nel retro di un misterioso palcoscenico. Per riapparire all’indomani, alla ribalta della passeggiata serale.
Quà e là le allegre finestrelle basse, con le grate in ferro e, dietro i vetri, la pentola con gli spaghetti e le collane di aglio e peperoncini secchi.
Siamo andati alla ricerca di tutte queste sensazioni, convinti di trovarle nelle case, nei lampioni, nelle piccole icone dipinte con mano infantile e matura speranza, dietro i muretti di tufo ricoperti di malva e di impietosi graffiti, fuori dal tempo che scorre lento come l’acqua sottile delle ultime sparute fontanelle. Abbiamo invano inseguito l’odore acre degli zoccoli bruciati dal ferro rovente degli ultimi “forgiari”; il canto notturno e libertario di “Vitaliano con la coda” e il suo sogno anarchico di “spezzare tutte le catene”.
Il grande Scrittore mi suggerisce: ” Questi vicoli, le piazzette, i mercatini che portano nella città i rumori, frammisti a lunghi silenzi, gli odori e i colori della campagna, ma anche il forte sentire della civiltà contadina, sono stati da sempre il teatro delle speranze, delle utopie del popolo, dei più deboli, dei giovani, dei forestieri”.
La Calabria di Strati non è solo la terra del ricordo e delle origini. Non è solo una stagione del sentimento e della memoria. E’ un grande bosco misterioso, animato da elfi, streghe e principesse. Vedove vestite di bianco, giovani emigranti, vecchi capibastone, nuovi capibastone in doppiopetto. Una terra in cui si gioca da millenni una strenua lotta tra l’uomo e la natura, l’uomo contro l’acqua e il fuoco, la vita contro la vita, la vita contro la morte.
“Da oltre vent’anni vivo a Scandicci - aggiunge dolce e confidenziale Saverio Strati - alle porte di Firenze. Vivere lontano dalla mia terra mi consente di vedere con più chiarezza i problemi del Mezzogiorno. Turgenev in una sua memoria scriveva ‘ So soltanto che io certamente non avrei scritto Le memorie di un cacciatore, se fossi rimasto in Russia. La stessa cosa posso dire di me. Se non fossi uscito dalla Calabria, non avrei potuto scrivere tutte le cose che ho scritto...”
Prima di lasciarlo in albergo gli chiedo se ancora c’è posto per la speranza in questa terra disperata. I piccoli occhi color dell’olivo maturo, brillano nella notte e illuminano un sorriso accattivante:
“Un rimedio ci sarebbe. Hai letto la favola di Rosina e Peppino?
C’era una volta una giovane principessa di nome Rosina, figlia di re e fidanzata con un giovane principe, di nome Peppino, figlio di re anche lui. Rosina un giorno si ammalò e nessun medico sapeva dire di che malattia si fosse ammalata; e perciò nessuno sapeva curarla... Se non fosse stato per il suo Peppino, che per salvarla si procurò gravi ferite al corpo. A quel tempo imperversavano nei boschi calabresi un terribile Orco e la sua compagna.
Rosina ebbe un’idea, si fece coraggio, affrontò i due mostri, prese l’accetta e con un colpo solo staccò prima la testa dell’orco e poi quella dell’orca. Infilò le due teste in un sacco. Accese il fuoco, mise le due teste sulle braci e col grasso che cominciò subito a sgocciolare spalmò un poco alla volta il corpo ferito del suo amore...
Che subito guarì. E vissero felici e contenti ”.
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