di MARCELLO FURRIOLO
"Nell’anno 2023 ci sono molti modi per onorare la Festa dei Lavoratori. Anche fuori dal rituale e dalle contraddizioni di una ricorrenza, che in Italia e in Calabria in particolare, riporta sempre il sapore un pò amaro di un sogno, che spesso svanisce alle prime luci di un nuovo giorno. Anche se si ripete come la prima volta, quando era solo un sogno ottocentesco..
Oggi, forse, è meglio parlare di un libro straordinario “Dove non mi hai portata”, di una scrittrice sublime, Maria Grazia Calandrone, che racchiude in se molte delle problematiche per cui è ancora di imprescindibile attualità questa giornata del 1 Maggio.
Maria Grazia Calandrone è un personaggio poliedrico e spiazzante nel panorama non molto variegato della cultura italiana. Poetessa di moderna e profonda sensibilità, scrittrice, sceneggiatrice, conduttrice televisiva e radiofonica, attrice, operatrice culturale di
vasti e raffinati interessi.
il suo ultimo libro è nella dozzina della selezione del Premio Strega ed è tra i favoriti per la vittoria finale del Premio Sila, giunto ormai alla undicesima edizione e che sta riconquistando un ruolo di assoluto prestigio e credibilità nazionale nel panorama culturale calabrese, che purtroppo continua a vivere di frammentazione e provincialismo.
“Dove non mi hai portata” ricostruisce con precisione chirurgica la vicenda personale , divenuta un fatto di cronaca, dell’autrice Maria Grazia Calandrone.
Il 24 giugno 1965 una coppia di amanti abbandona una bimba di otto mesi su un prato di Villa Borghese a Roma e poi sceglie di togliersi la vita lanciandosi nelle acque del Tevere.
Prima di compiere questo gesto disperato la donna, Lucia Galante in Greco, spedisce una lettera alla redazione dell’Unità, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci e all’epoca diretto da un grande intellettuale e politico calabrese, Mario Alicata. Nella lettera la giovane madre indica il nome della bimba, Maria Grazia, e preannuncia l’intendimento del suicidio assieme al compagno Giuseppe, per l’impossibilità di garantire un futuro a se stessi e alla figlia.
In sè una storia come tante altre, se non fosse che è il culmine tragico di una vicenda emblematica di un’Italia che vive le contraddizioni e le delusioni di un percorso sociale mai compiuto verso la modernizzazione, l’eliminazione delle disuguaglianze, il lavoro, la piena tutela dei diritti fondamentali sopratutto per le donne. Siamo nel 1965, è vero.
Financial Times ha attribuito all’Italia e alla Lira l’Oscar per la Moneta più affidabile al Mondo.
Il Governo di Centrosinistra è guidato da Aldo Moro, Vice Presidente è il socialista Pietro Nenni, Ministro di Giustizia è il repubblicano Oronzo Reale, Sottosegretario l’indimenticato Riccardo Misasi, mentre Ministro dei Lavori Pubblici è Giacomo Mancini.
Un governo di alto profilo politico e istituzionale, ma evidentemente alle prese con una congiuntura, sopratutto dal punto di vista sociale, estremamente difficile, con un paese che aveva conosciuto un grande scatto corale nella ricostruzione post bellica, realizzando le condizioni del Miracolo economico, i cui effetti, però, cominciano a deflettere facendo riemergere duramente gli squilibri dei territori, le crescenti disuguaglianze, i violenti contrasti che si sviluppano all’interno delle grandi città industrializzate, assediate da una incontrollabile migrazione interna e dove più acuto è il bisogno di lavoro, ma anche di tutela dei fondamentali diritti umani. Si può dire che proprio da quegli anni inizia una nuova storia per il nostro Paese. Ancora più difficile e contraddittoria.
Maria Grazia Calandrone ci racconta l’Italia di quegli anni, evocando i profumi e i suoni della società contadina e la grande solitudine dell’urbanesimo violento, ricorrendo alla poesia di Giorgio Caproni, di Vittorio Sereni, all’umanità complessa e tormentata di Vitaliano Trevisan, alle pagine amare di Luciano Bianciardi de “La vita agra”, ma sopratutto agli affreschi di umanità violenta di Pier Paolo Pasolini, delle sue borgate romane, evocate come la Cina e sovrapponibili alle Coree milanesi.
Nella vicenda di Lucia Galante c’è tutto questo, che si evolve con il ritmo malinconico e senza scampo di una tragedia bucolica.
L’infanzia alla masseria Galante a Palata in Molise. Il primo fuggevole amore di Lucia per Tonino e il gran rifiuto dei genitori perchè il giovane è un “senza terra”. Il matrimonio combinato con Luigi “centolire” e Lucia che è costretta a subirlo dal padre che la insegue col fucile. Un matrimonio infelice e non consumato, “ il materasso di Lucia è muto” e Luigi la “tocca solo col forcone”. Finchè non compare sulla scena Giuseppe, sor Peppe il romano, sposato con cinque figli, con un passato di guerra in Africa e grande voglia di dimenticare le violenze e il puzzo dei cadaveri. Ha il doppio degli anni di Lucia, ma è simpatico e la fa innamorare sulle note di Violino Tzigano. La storia dei due amanti corre nei vicoli del paese, che si divide tra gli Indifferenti e i Sensibili, ma nessuno difende apertamente Lucia. “La fiatella sociale imputridisce tutto quello che tocca”. Lucia rimane incinta e non ha scelta se tenere la creatura in grembo. La situazione precipita. Il marito tradito sporge denuncia, forte della lettera degli articoli 559 e 560 del Codice Penale fascista, che condannano prioritariamente l’adulterio della donna, a cui, in “una stagione di confine tra arretratezza ottusa e intelligenza morale”, la legge degli uomini affida in esclusiva alla moglie la salvaguardia dell’unità familiare. Non c’è il divorzio e la Corte Costituzionale solo dicembre 1969 dichiarerà incostituzionali i due famigerati articoli.
Inseguiti dalla legge i due poveri amanti emigrano a Milano, dove inseguono il sogno mancato di rifarsi una vita e trovare lavoro. Ma non sarà così. La crisi ormai travolge sopratutto le grandi città. Il 15 ottobre 1964 Lucia da alla luce la piccola Maria Grazia. Inizia la peregrinazione del dolore e della disperazione, che si conclude il 24 giugno 1965 nel prato di Villa Borghese e sulle rive del Tevere, dove l’altra Italia girava le scene di “Vacanze Romane” con Audrey Hepburn, ma anche “Poveri, ma belli”.
Il resto è la ossessiva ricerca da parte di Maria Grazia Calandrone, affidata alle amorevoli cure di una nuova famiglia, che aveva raccolto il richiamo compassionevole dalle colonne dell’Unità, della ricostruzione delle motivazioni e delle movenze di un gesto atroce come il suicidio di una madre, costretta dal pregiudizio sociale e dalle ingiustizie degli uomini a scambiare la propria vita con la vita della figlia. Un femminicidio morale. Un grande libro per una storia che non finisce. Buon Primo Maggio!"
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