di MARCO CALABRESE
L’opera lirica è oggetto di ammirazione per molti quasi ossessiva - i melomani per esempio - per altri suscita un totale disinteresse, e alcuni per passare una serata diversa scelgono un palco all’opera. L’Italia, patria dell’opera e specificatamente del melodramma, avrebbe un obbligo categorico nei confronti di questa arte: diffonderla in maniera capillare e intensa ovunque, indistintamente; in teatro, nelle scuole, nei cinema. Assistiamo invece ad un disinteresse sempre maggiore, e diversamente da quello che accade all’estero, l’opera diventa il posto di ritrovo di persone adulte, e raramente frequentata da giovani, che come abbiamo avuto il piacere di constatare, nei teatri d’oltralpe affollano le platee e i palchi con il loro atteggiamento curioso e a tratti impacciato, che suscita sempre una infinita tenerezza!
I teatri d’opera in Italia, esclusi i colossi che sfornano opere forse più per marketing che per reale interesse, hanno poco cartellone e propongono poca opera. Va detto che i costi di produzione sono comunque alti: solisti, coro, orchestra, direttore e regista, e poi costumista, scenografo, truccatori, maestranze tecniche e di palco… una macchina gigantesca, se paragonata al teatro di prosa. Per fortuna di tanto in tanto spunta qualche titolo, nato in collaborazione con altri teatri o associazioni. E questo è stato il caso di Cavalleria rusticana e Pagliacci proposte nella serata del 25 novembre al Teatro Politeama di Catanzaro, grazie alla collaborazione della Fondazione Politeama e Sicilia Classica Festival. Facendomi portavoce dei molti appassionati di opera, esplicitiamo la nostra gratitudine al Teatro e a tutti quelli che si sono spesi nel proporre questi due titoli di “repertorio” del teatro d’opera. Alcune riflessioni però vanno fatte.
L’opera si basa su un testo che viene musicato. Quindi il racconto, amplificato dalla musica, deve trovare altrettanto riscontro nel prodotto visivo, composto da scenografia e movimenti scenici (coreografia). Se il coro inneggia al Cristo risorto (“Inneggiamo il Signor non è morto, inneggiamo al Signore risorto”) e lo stesso Mascagni aveva previsto prima un coro fuori scena - esattamente un interno che proviene dalla chiesa - a cui il popolo in piazza si accoda, intanto che esce dal sacro tempio la statua del Cristo risorto, vorremmo vedere la statua in questione, e non quella della Madonna addolorata vestita di nero, tipica della processione del venerdì santo! L’opera si svolge il giorno di Pasqua. Sarà stata una svista, ma non è l’unica. Il coro-popolo fatto di contadini e gente semplice e umile, quasi in apertura dell’opera canta la fine del lavoro nei campi, e gli uomini provati dal duro lavoro, raggiungono le loro belle dagli “occhi di sole” con un trasporto musicale così ben dettagliato e accorato.
Scenicamente abbiamo visto due gruppi distinti: gli uomini a destra, le donne a sinistra (che poi sarà sempre così in tutta l’opera!) che non interagivano tra loro… con nostra grande delusione. E intanto che le voci si intrecciano la staticità dei coristi regna sovrana, intanto che sei ballerine e tre ballerini, eseguono dei movimenti coreografici per nulla attinenti, accompagnati spesso da un nervoso e ripetitivo segno della croce, che ricorda, ma con il risultato di scimmiottare, i lavori teatrali di Emma Dante. I cantanti, seguendo le istruzioni registiche, non usano il proscenio e cantano proprio all’interno del palcoscenico, dove la voce resta imbrigliata dalle quinte di sforo. E allora, altra trovata poco geniale: microfoni posizionati sul palco che amplificano (in malo modo) le voci. E per fortuna che il regista Francesco Ciprì, come si legge dal programma di sala, è un cantante d’opera! L’orchestra spesso scollata, gli archi non sempre insieme; il direttore Aldo Salvagno cercava invano di tenere assieme buca e palco.
Il dolcissimo “Intermezzo” ha visto in scena una croce trascinata a braccio, seguita dal coro con candele in mano… Ci ha ricordato Fantasia di Walt Disney; la celebre scena con l’Ave Maria di Schubert. Siamo esseri umani, e l’errore fa parte del nostro vivere; ma un errore clamoroso è stato fatto dalle Signore del coro che hanno attaccato il concitato coro “A casa, a casa” assieme ai Signori, per poi zittire e spegnere con non poco imbarazzo la grossolana svista dopo alcune battute. Questa è solo una piccola parte di un racconto che potrebbe risultare troppo lungo, e quindi non vogliamo affrontare un'analisi più attentamente musicale (e ce ne sarebbe da dire molto!), e intavolare le nostre considerazioni sull’altra opera: i Pagliacci. Non me ne si voglia se queste mie riflessioni non piaceranno risultando una critica evitabile o da “non fare”. Il teatro, che nella sua natura ha sempre suscitato discordie, veementi diatribe o solo e educati confronti, è anche questo. E lo si dice perché ci si augura che la prossima volta non si incorra negli stessi errori. Un po’ di attenzione in più, un'adeguata lettura del libretto, e un maggior numero di prove di assieme per stabilizzare la prestazione artistica di tutti, renderebbero lo spettacolo meno sempliciottto e scolastico di quello a cui abbiamo assistito.
Testata giornalistica registrata presso il tribunale di Catanzaro n. 4 del Registro Stampa del 05/07/2019.
Direttore responsabile: Enzo Cosentino. Direttore editoriale: Stefania Papaleo.
Redazione centrale: Via Cardatori, 9 88100 Catanzaro (CZ).
LaNuovaCalabria | P.Iva 03698240797
Service Provider Aruba S.p.a.
Contattaci: redazione@lanuovacalabria.it
Tel. 0961 873736