di MARIA GRAZIA LEO
Non è semplice ricordare la prima vittima di mafia, riconosciuta come martire della Chiesa. Se parlare di magistrati, politici, giornalisti, sindacalisti, imprenditori, potenziali ed in molti casi effettivi bersagli del fuoco mafioso sembrerebbe più plausibile, in un certo senso più “classico” o scontato, poiché collocabili in un’ottica laica, istituzionale tipica di uno Stato di diritto, quando rivolgiamo lo sguardo su una figura spirituale, di fede- diventa meno facile- quasi impossibile che possa succedere un fatto, un evento simile. Parliamo nel caso concreto di Don Pino Puglisi, del quale ricorre il trentennale della sua barbara uccisione per mano mafiosa, avvenuta a Palermo il 15 settembre 1993.
Per comprendere meglio la sua persona, il suo valore basterebbe soltanto soffermarsi sulle efficaci ed esaustive parole che Papa Francesco gli ha dedicato nel 2013: << Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà però è lui che ha vinto con Cristo risorto.>>
A noi il complicato compito di snocciolare con modestia e per quanto possiamo ciò che ha seminato e lasciato in terra, con il suo esempio di vita umana e pastorale.
Il prete, il parroco di Brancaccio- un quartiere palermitano a forte densità mafiosa- così veniva chiamato e definito Don Puglisi, nacque proprio lì -il 15 settembre del 1937- da una famiglia modesta; il padre faceva il calzolaio, la mamma era una sarta. A 16 anni è già sicuro della strada da intraprendere, per dare un senso alla propria vita; entra al seminario arcivescovile di Palermo iniziando il suo percorso sacerdotale, assumendo nel corso degli anni numerosi incarichi, da sacerdote ad insegnante di religione e matematica in varie scuole siciliane, a cooperatore, rettore, cappellano presso un istituto di orfani, ad animatore di molteplici realtà cattoliche giovanili, quali la Fuci e l’Azione Cattolica.
Sin dagli albori delle sue prime attività si interessa alle problematiche sociali dei quartieri più disagiati, più degradati della città capoluogo di regione e prende a cuore soprattutto i giovani, oltre che gli anziani e le famiglie più in difficoltà. Il centro della sua attenzione sono le cosiddette periferie esistenziali e umane nelle quali risalta la sua vocazione missionaria nel confortare, nell’aiutare, nel trasmettere una parola di speranza a chi gli rivolgeva la sguardo o gli chiedesse soccorso, sempre con il suo sorriso mite e gioioso. Una vocazione quella di Don Puglisi che è stata una costante di vita, un faro acceso nella sua mente e nel suo animo.
Ma per conoscere in sequenza la formazione del parroco di Brancaccio non è da Palermo che dobbiamo iniziare ma dalla Valle del Belice – zona collocata tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo- che nel 1968 venne colpita da un violento terremoto di magnitudo 6, che provocò centinaia di morti, feriti e sfollati. Don Puglisi decide di recarsi lì -insieme ad un gruppo di volontari laici- per dare assistenza. Ed è qui che toccherà con mano la sofferenza, il senso di abbandono, di disperazione, di frustrazione di quella povera gente dolente, lesa e provata dal sisma e sconfinata nel sopravvivere in baracche di lamiere o tende improvvisate, con i pochi viveri che riuscivano ad arrivare, oltre che con gli occhi pieni di lacrime per la perdita dei loro cari. Ed è qui che Don Pino decide di intervenire, con il pragmatismo che lo contraddistingueva ma anche con la liturgia che diffonde in ogni angolo delle strade per coloro che ne avessero avuto bisogno. La liturgia, la preghiera per lui non erano l’ultimo appiglio sul quale aggrapparsi ma erano le basi sulla quali impostare una nuova partenza o ripartenza.
E con lo stesso slancio lo ritroveremo dal 1970 fino al 1978, nel ruolo di parroco di Godrano, un piccolo paese della provincia di Palermo, dominato dalla faida di due famiglie di mafia in lizza ed in competizione fra di loro per affermarsi nel territorio, attraverso il metodo della violenza, della vendetta come sistema per farsi giustizia, delle intimidazioni, dei ricatti e del disprezzo verso gli avversari. Di fronte questo scenario Don Puglisi è ben conscio che la sua opera non può essere improntata sull’ordinarietà nel gestire la parrocchia ma deve fare un salto, uno scatto in più, che dia un senso di discontinuità. E l’idea non gli mancò di certo, anzi divenne altrettanto “rivoluzionaria” per le abitudini di quel luogo. Decide di avviare con i parrocchiani una serie di incontri nelle case per leggere la parola di Dio, dando vita ai “Cenacoli del Vangelo” che tanto stupì e affascinò la cittadinanza di Godrano. Nacque in essa una voglia di vero e pieno rinnovamento, da apportare nella vita quotidiana di ciascuna persona. Si determinò -pertanto- una fiducia reciproca tra Don Puglisi e le molte famiglie coinvolte e affascinate dai Cenacoli. Molte persone ritornarono in Chiesa, si avviarono i corsi di catechismo per i bambini. Una svolta religiosa che fece riavvicinare al Vangelo anche uno dei “patriarchi” capomafia del paese che insieme al figlio assistettero alla messa. Grazie a quel parroco di Brancaccio, si crearono le condizioni per riconciliare sulla via del bene le famiglie mafiose in contrasto tra loro.
Ma la più importante occasione nella quale emergerà bene lo stile, il metodo educativo, pedagogico di Don Puglisi, gli verrà offerta dal Cardinale e Arcivescovo di Palermo, Salvatore Pappalardo, quando il 29 settembre del 1990 lo nominerà parroco della Chiesa di San Gaetano a Brancaccio e poi nel 1992 -quando-assumerà anche l’incarico di Direttore spirituale presso il seminario arcivescovile di Palermo. Ritornato nel quartiere delle sue origini, Don Pino ha piena contezza della presenza della criminalità mafiosa come della microcriminalità che pervade ed infetta quel territorio, e si dà subito da fare per incidere positivamente nel tessuto sociale, rivolgendo la sguardo alle persone più disagiate, bisognose, più deboli e indifese, oggetto di facile attrazione per la delinquenza. Aveva in particolare una passione educativa d’altri tempi, destinata ai ragazzi e ai bambini. Il suo obiettivo non era tanto quello di togliere chi già era stato catturato dalla mafia ma prevenire ed evitare che i giovani venissero risucchiati in un limbo di pseudo cultura e regole mafiose, dalle quali poi era difficile uscirne. Perciò si impegnerà a tutto campo, creando gruppi di ritrovo in parrocchia, spingendo le autorità competenti a fornire strutture pubbliche efficienti per le nuove generazioni, come scuole, campetti di calcio, circoli ricreativi, spazi di ritrovo sicuri. In parallelo si interessava anche alle famiglie di Brancaccio e alle problematiche che le attanagliavano, dalle fogne e discariche a cielo aperto, all’urgenza di creare delle postazioni sanitarie per le prime emergenze, o di garantire a tutti coloro che vivevano all’aperto, negli angoli più bui di Brancaccio pasti caldi, se non un tetto dove ripararsi.
A tutti porgeva una mano, una carezza, a tutti rivolgeva il suo sorriso dolce e accogliente, a tutti offriva un supporto, un conforto, a tutti regalava una speranza, nella convinzione che bisognava rappresentare l’annunzio di Gesù Cristo nel territorio, nella vita reale, facendo propri tutti i problemi, tutti i dubbi di una comunità cristiana.
Una visione quella di Don Puglisi in cui la Chiesa era considerata innovatrice, aperta al mondo e ai nuovi tempi, alla libertà e non una Chiesa chiusa, conservatrice o rivolta alla paura, all’insicurezza. In conseguenza del suo pensiero non accetta più le donazioni dei privati destinate alle feste padronali, perché provenienti dai mafiosi; promuove incontri nei quali si affronta – a viso aperto- il rapporto tra Chiesa e mafia; apre la sua parrocchia ai non battezzati; impartisce messa pure all’aperto con omelie forti, denuncianti la criminalità senza escludere il perdono che è individuale, del singolo peccatore rispetto alla matrigna mafiosa che lo induce a ciò.
Con il suo semplice e sapiente magistero si respirava ovunque la cultura della legalità, dei buoni principi e dei sani valori illuminati dalla fede…nei luoghi religiosi, nelle strutture sociali, scolastiche, ludiche nelle quali agiva. A coronamento della sua missione evangelica, Don Pino Puglisi fonda ed inaugura nel 1993 il Centro “Padre Nostro” mirante proprio alla promozione umana e alla evangelizzazione, avvalendosi del lodevole contributo dei volontari laici con la freschezza e l’entusiasmo dei loro ideali e della tenerezza spirituale e amorevole delle suore.
Qui l’essere educatore pose definitivamente e pienamente le sue radici. La sua eccezionale e straordinaria capacità di ascolto verso il prossimo, la sua simpatia ed il suo desiderio di conoscenza attraverso un instancabile dialogo, restano un esempio, un’eredità pedagogica, umana ed etica per tutti noi.
L’ orizzonte di Don Pino era coniugare in ogni comunità il momento spirituale con l’azione sociale. Il bisogno educativo doveva trasformarsi in risposte certe e risolutive, per offrire un risvolto di bellezza e serenità alla vita quotidiana.
I giovani che venivano sottratti alla criminalità piccola o grande che sia, dovevano rendersi conto che il rispetto, la stima, la gratitudine si conquistano non dimostrando di essere referenti e/o deferenti con atti di predominio, violenza, obbedienza, offese o timori reverenziali verso gli altri ma credendo nei propri ideali, da condividere alla pari con il prossimo e nel rispetto delle regole.
Il bel clima ed il profondo spirito di gruppo e senso di comunità che Don Pino Puglisi aveva diffuso e promosso non erano ovviamente ben visti, ben accetti dai clan mafiosi ed in particolare dai boss del luogo- i fratelli Graviano- e dal capo dei capi Totò Riina. Vedersi sottrarre la potenziale manovalanza giovanile da asservire ai più disparati piccoli o grandi reati, finalizzati ad intimidire e tenere in pugno un intero quartiere o gruppo o singolo cittadino, non era facile da ingoiare e lasciar passare, così facilmente. Quando le risposte ai problemi, alle necessità, ai bisogni…dalla povertà, all’analfabetismo, alla salute, ai trasporti e servizi vari iniziano ad assumere le sembianze, dello Stato e delle sue istituzioni locali o nazionali, oppure rivestono il volto della Chiesa…diventando diritti, opportunità per tutti e non più favori o privilegi nel rispetto delle regole, della giustizia sociale, dell’eguaglianza e della libertà di pensiero è chiaro che alla mafia tutto questo possa dare fastidio, possa rappresentare un ostacolo alla sua potenza, alla sua “rispettabilità”. Significa togliere l’acqua al suo mulino, costituito di illegalità, concessioni, soprusi, ricatti. Per cui -alle fine- si decise di eliminare dalla vita terrena il buon pastore e lo si fece proprio il giorno del suo 56.mo compleanno, nella sera del 15 settembre del 1993. Gli esecutori di quell’agguato – i mafiosi Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza poi arrestati e condannati insieme ai mandati i Graviano ed altri- nel corso degli anni si avviarono verso un cammino di ravvedimento/ conversione e raccontarono che nel momento in cui attirarono l’attenzione del prete di Brancaccio, egli si rivolse a loro con un sorriso proferendo una semplice frase “Me l’aspettavo”. Anche in queste ultime sue parole intravediamo la mitezza dell’uomo e l’immensità e la purezza dell’animo del buon cristiano, che sta per essere issato sulla Croce.
Dieci anni dopo- il 25 maggio del 2013- Don Puglisi venne proclamato Beato da Papa Francesco. Essendo stato riconosciuto “martire delle fede” non è stato necessario aspettare il verificarsi di un miracolo, frutto del suo agire. Viene ricordato -ogni anno- il 21 ottobre perché si è voluto rendere omaggio al giorno in cui è stato battezzato. A lui -ancora oggi- vengono intitolate scuole, piazze, strade, luoghi di cultura e di giochi, centri sociali e religiosi, giardini; e stato girato un film, allestito un Musical e messa in scena una pièce teatrale. In conclusione di questo nostro racconto, possiamo dire che il coraggio delle sue battaglie, finalizzate all’evangelizzazione spirituale, laica ed etica dei “ suoi” ragazzi di Brancaccio lo si può ricercare nell’originalità del suo essere contemporaneamente uomo “politico” nel senso più nobile ed universale del termine, posto al servizio del bene pubblico e di pastore di anime, degli umili, dei fragili, degli indifesi che si incontrano nelle periferie esistenziali del mondo, quelle che Papa Bergoglio non considera solo spazi fisici e geografici ma condizioni in cui si diffondono e si ramificano l’emarginazione e l’isolamento degli esseri umani, intesi come scarti della società. “E se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto; …è proprio il martirio che dà valore alla testimonianza. -Don Pino Puglisi-”
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