di MARIA GRAZIA LEO
Cadeva di venerdì, quel 29 luglio di 42 anni fa. Palermo iniziava a svegliarsi come tutti i giorni nella solita quiete estiva, accecata dal sole e dalla calura. La maggior parte dei palermitani era riversata sulla costa o si accingeva a farlo. Chi restava in città lo faceva o per necessità o per impossibilità nel muoversi o per esigenze prettamente lavorative. Tra questi ultimi - puntualissimo come sempre- alle 8.00 circa del mattino si apprestava ad uscire dalla sua residenza, sita in via Pipitone Federico n.59, il Consigliere capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo Rocco Chinnici, con destinazione Palazzo di Giustizia. Non arrivò mai, perché ad attenderlo davanti al portone di casa sua c’era una Fiat 126 verde, imbottita di 75 chili di tritolo, pronta ad esplodere al suo arrivo e fermarlo per sempre. Era la prima auto bomba utilizzata dalla mafia contro un magistrato. Palermo in un lampo di luce diventava come Beirut, una città dall’odore acre, sventrata, soffocata, colpita da quel tritolo che ridusse a brandelli i corpi del giudice, degli agenti della sua scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, di Stefano Li Sacchi il portiere dello stabile nel quale abitava Chinnici e ferì gravemente l’autista del magistrato, Giovanni Paparcuri. Per la serie corsi e ricorsi storici o destini incrociati ritroveremo un’altra Fiat 126 imbottita di tritolo 11 anni dopo in via D’Amelio sempre in luglio in cui persero la vita il giudice Borsellino e la sua scorta. La potenza di quelle esplosioni compresa quella del 23 maggio del 1992, che colpì un altro servitore dello Stato, Giovanni Falcone, fu enorme sul piano politico, umano, giudiziario e morale. Erano la dimostrazione plastica di quanto quei magistrati-con le loro connesse attività investigative- fossero un ostacolo, un grande pericolo, un intralcio quotidiano per gli affari e gli spostamenti territoriali della criminalità organizzata. Su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci siamo soffermati in occasione del trentesimo anniversario della loro barbara uccisione. Oggi ci sentiamo in dovere ed in animo di ricordare in occasione del centenario della nascita avvenuta nel 1925, l’ideatore del pool antimafia, progetto che venne messo completamente e organicamente a terra -dopo la sua morte- dal suo successore Antonino Caponnetto.
Era un siciliano puro Rocco Chinnici, nato a Misilmeri vicino Palermo, il 19 gennaio del 1925. Si forma con gli studi classici fino alla laurea in Giurisprudenza -con la quale accederà tramite concorso- alla carriera in magistratura prima come uditore giudiziario a Trapani nel 1952, poi per 12 anni come Pretore a Partanna, infine come giudice istruttore dal 1966 e Consigliere capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo dal 1979/1980 fino al 1983. Tutti lo ricordano o lo ricordiamo per le sue inchieste antimafia apportate nel capoluogo siciliano, forse pochi lo ricordano per quello che è stato Rocco Chinnici da uomo ed in particolare nell’esercizio della sua funzione a Partanna. Testimoni di ciò sono stati gli stessi abitanti del piccolo paese trapanese, tanto che per quello che di buono ha lasciato loro, lo chiamavano in senso di riconoscenza e stima affettuosa “lu preturi”. Trattava casi molteplici nel suo piccolo ufficio, dall’abigeato (furto di animali), alle liti condominiali o controversie familiari. In tutte queste situazioni spiccavano oltre che le sue doti professionali, anche le sue qualità umane di buon padre di famiglia, integerrimo nella sua stazza fisica e morale ma proiettato all’ascolto e al dispensar saggi consigli, dare conforto o a manifestare con umiltà e semplicità la sua presenza, quando richiesta dai cittadini di Partanna. Basta evidenziare che nei casi di applicazione di una pena o sanzione verso il responsabile, la condanna era applicata sempre con il senso dell’umanità. Il suo fine era quello di capire le motivazioni che avevano spinto qualcuno a commettere un fatto seppur illecito, la sua analisi meticolosa e certosina era improntata nell’applicare una pena avente effetti sempre rieducativi, rispecchiando pienamente lo spirito che i costituenti avevano indicato nell’art. 27 della nostra Costituzione. Questi tratti caratterizzanti di Rocco Chinnici, contribuiranno insieme alla sua indipendenza, autonomia e serenità di giudizio nell’esplicare le sue funzioni giurisdizionali in modo tale da renderlo stimato, apprezzato e preso a modello in tutto l’ambito giudiziario e nella società civile. Il suo predecessore all’Ufficio Istruzione, il Dr. De Blasi così scrisse di lui nel 1974: solo il sacrificio di giudici che operano come lei senza alcun limite alla loro attività, può consentire che si possa procedere senza il verificarsi di gravissime disfunzioni.
Gli anni del 1979/80 e a seguire sono stati per Palermo anni di terrore sul piano dei crimini e dei delitti mafiosi eccellenti e non. Si assistete ad una vera guerra fratricida tra la vecchia mafia dei palermitani tra i quali capi spiccavano Tano Badalamenti, Salvatore Inzerillo, Stefano Bontate e la mafia emergente dei corleonesi diretta da Totò Riina, Bernardo Provenzano, Luciano Liggio, Leoluca Bagarella…uno scontro feroce che lascerà a terra in un bagno di sangue gli appartenenti dell’una e dell’altra fazione, seminando paura tra le strade, i quartieri e i vicoli della città siciliana. Alla fine prenderà il sopravvento la mafia dei corleonesi. In contemporanea, per dare un segnale di forza e di potere vengono uccisi magistrati come il giudice istruttore Cesare Terranova, il Procuratore di Palermo Gaetano Costa, giornalisti come Mario Francese, Giuseppe Fava, poliziotti tra i quali ricordiamo il capo della Mobile Boris Giuliano, carabinieri come il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, politici come il consigliere comunale e segretario provinciale della Dc di Palermo Michele Reina, il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il segretario regionale del PCI on. Pio La Torre. È una mattanza di persone perbene, di servitori dello Stato che hanno immolato- a testa alta- la loro vita con coraggio e dignità per rimanere fedeli agli ideali di giustizia, legalità, libertà e democrazia. Era un quadro devastante quello che si presentava, perciò occorreva uno scatto in più a livello investigativo e giudiziario per combattere e contrapporsi con strumenti adeguati alla mafia che la faceva da padrona, aiutata dai suoi “tentacoli” esterni che la foraggiavano e coprivano.
Rocco Chinnici lo capì subito, quando iniziò a lavorare all’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, tanto che con il suo intuito e la sua modernità itinerante- risultata poi vincente- decise di cambiare metodo di azione. Il fenomeno mafioso andava analizzato in una sua unicità e sistematicità, aveva delle regole rigide al suo interno, con una organizzazione verticistica/piramidale bel oleata e ramificata. Non era più utile alla causa continuare ad imbastire inchieste sfilacciate l’una dall’altra con magistrati che riempivano faldoni d’indagine su singole famiglie mafiose o su un solo soggetto di essa. Il rischio era che o per causa di un trasferimento del magistrato titolare del fascicolo, o per uccisione per mano della mafia dello stesso, il lavoro fin ad ora portato eseguito sarebbe stato vanificato.
Rocco Chinnici ha un’idea brillante; creare appositamente una squadra, un gruppo di magistrati che si occupino solo di reati di mafia in modo tale che il patrimonio di informazioni ottenute dalle indagini non venisse disperso. Tutti dovevano essere messi a conoscenza del lavoro e dei risultati degli altri colleghi, in un coordinamento continuo di scambi di notizie e atti investigativi e sulle strategie d’indagine da adottare. Importante era preservare la memoria storica dei filoni d’inchiesta. Praticamente, così come la mafia viveva attraverso un potere conquistato con intimidazioni, ricatti, violenza, sostenuta da una struttura piramidale granitica e corale, anche la magistratura tutta doveva attrezzarsi e rafforzarsi strutturalmente e professionalmente. Quindi una rivoluzione di metodo e di mentalità. Da qui la nascita di quello che poi si sarebbe chiamato Pool antimafia, all’interno del quale Chinnici chiamò giovani magistrati emergenti come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello. I frutti di quel pool investigativo saranno subito evidenti ed importanti. Un esempio per tutti è stato il redigere il Rapporto dei “162” mafiosi poi portati a processo e che fece da apripista al più conosciuto e storico Maxi-Processo alla mafia (Abbate Giovanni+ 746), finito di istruire nel 1985 da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, coordinati dal successore di Rocco Chinnici, il Consigliere Antonino Caponnetto e svoltosi nel 1986 nella famosa Aula bunker dell’Ucciardone a Palermo.
Alla base di tutto per “lu Preturi” era fondamentale che si instaurasse tra i colleghi un solido rapporto di fiducia, di collaborazione e di comunicazione sulle indagini. È con il prezioso contributo di Chinnici che si dà l’impulso finale -dopo l’uccisione del suo ideatore Pio La Torre- alla formulazione e adozione del nuovo reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, inserito nel Codice penale all’art.416 bis, oltre che a misure normative più stringenti ed efficaci in materia di sequestro e confisca dei patrimoni mafiosi, provenienti da attività illecite. Stiamo parlando della legge Rognoni/La Torre approvata definitivamente dal Parlamento nel settembre del 1982. Su questo ultimo punto, ci sembra doveroso ricordare un piccolo aneddoto che è lo stesso Consigliere istruttore Chinnici a segnalarlo in audizione- il 18/5/1982- al Consiglio superiore della magistratura. Riceve all’interno del Palazzo di Giustizia una simil cortese reprimenda formale ma ferma e cruda sul piano sostanziale dal Procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo, Giovanni Pizzillo che…ma lasciamo che sia lui a raccontarla “Vado da Pizzillo per chiedergli l’applicazione di un Pretore…mi investe in malo modo dicendomi che all’ufficio Istruzione stiamo rovinando l’economia palermitana disponendo indagini ed accertamenti a mezzo della guardia di Finanza. Mi dice che devo caricare di processi semplici Falcone in maniera che cerchi di scoprire nulla, perché i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla”. Questo era il clima di isolamento, scetticismo, diffidenza e forse in alcuni casi di invidia che respiravano Rocco Chinnici ed il suo Pool antimafia, al momento di esercitare le proprie funzioni.
Ma il giudice rivoluzionario e gentile come ben riportato sulla copertina del libro a lui dedicato in occasione del 100.mo della sua nascita (L’Italia di Rocco Chinnici- Storie su un giudice rivoluzionario e gentile- di Alessandro Averna Chinnici e Riccardo Tessarini- Minerva Edizioni) sul quale ci tratterremo alle conclusioni, non destina la sua attività soltanto sull’aspetto giudiziario ma va oltre. Il suo sguardo di magistrato illuminato si intreccia con il cuore di un padre premuroso e affettuoso verso i suoi figli e verso tutti i giovani ai quali riserva con dedizione e passione il suo impegno civile e culturale. “La mia fiducia è nelle nuove generazioni. Nel fatto che i giovani credenti e non credenti, della sinistra, democratica o di nessuna militanza politica si ribellano, respingono il potere della mafia. Questa è la grande speranza che sta germogliando. È necessaria però un’opera di sensibilizzazione, specialmente in rapporto al fenomeno droga…” Ed è proprio su questo particolare e drammatico tema che Rocco Chinnici da buon padre di famiglia, alcune mattine usciva di casa non per recarsi al Palazzo di Giustizia ma nelle scuole o nei luoghi di cultura per parlare ai ragazzi- a cuore aperto- del grandissimo pericolo che generava la tossicodipendenza. L’eroina in quegli anni stava prendendo piede e lasciava -ogni giorno in Italia- per le strade, nelle periferie e nei quartieri delle città, vite di giovani innocenti distrutte -da finte illusioni- e finite da un laccio emostatico ancora legato al braccio e la siringa a terra. Non era un bel vedere non solo per chi seguiva i telegiornali o vi si imbatteva direttamente mentre camminava per strada o passeggiava in un parco ma anche per chi operava sul campo. C’era un’impotenza di fondo…e Chinnici ne è consapevole, sa quanto la mafia speculi e si arricchisca dallo spaccio di droga e dal suo consumo, tant’è che da pioniere ammonisce, sensibilizza, scuote le istituzioni, la società civile, il mondo scolastico in primis. “Si è portati a sottovalutare il problema della droga i cui effetti deleteri li vedremo fra 10 anni. Perché il tossicodipendente diventa un peso per la società oltre che per le famiglie…i nuovi accattoni sono i drogati” Miglior profezia non poteva esserci da questo uomo buono e saggio, ed eravamo solo agli inizi degli anni ’80. Chinnici fu un visionario nel senso virtuoso del termine, un antesignano dei tempi e gliene dobbiamo esser grati! Aveva ragione, il problema della droga ma non solo anche della mafia, della corruzione, del crimine in genere non è, e non può restare soltanto giudiziario, prettamente penale o solo di riflesso politico ma è un problema sociale, civile, umano. Questi sono stati i suoi insegnamenti morali, le sue lezioni di vita ai giovani e alle istituzioni tutte. È stato il primo giudice a far “entrare” la magistratura in veste di funzione civica e costituzionale nelle scuole, nelle Università. Prima di lui solo un carabiniere con gli alamari tatuati nel cuore ebbe la stessa intuizione, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa al quale la mafia concesse poco tempo di agire, fermandolo definitivamente in via Carini, il 3 settembre del 1982. Oggi può sembrare ormai scontato, un dato di fatto parlare di “lavorare in sinergia” o sottolineare la leale “collaborazione tra istituzioni, politica, società civile, magistratura” per affrontare delle tematiche importanti, tutti uniti per il bene dei cittadini, attraverso la promozione e la tutela dei valori di democrazia, giustizia, eguaglianza, libertà, solidarietà, legalità. Ma in realtà tutto questo non è stata una passeggiata, si è dovuto seminare tanto con pazienza e determinazione superando molti ostacoli, per poi far germogliare quei semi. E questo lo dobbiamo a persone splendide, lungimiranti e coraggiose come Rocco Chinnici. Di lui ecco cosa proferì il cardinale Salvatore Pappalardo il giorno dei suoi funerali a Palermo …”il monumento più valido è il nome onorato che questi caduti lasciano ai loro figli e alla nazione tutta, è l’esempio del dovere compiuto fino al sacrificio “. Apprestandoci alle conclusioni non ci siamo dimenticati di fermare la nostra attenzione sul libro -sopra citato-. Leggendolo in modo scorrevole e con tanta curiosità nel cercare note di semplicità e frammenti di vita privata su Rocco Chinnici, tra i tanti contributi forniti dai rappresentanti delle istituzioni, dalla sua famiglia, dai collaboratori del giudice, dai professionisti dell’informazione, due storie ci hanno colpito emotivamente: “Rosa 101” e “Cibo per la memoria”. La prima proviene da un’esponente della scuola, la seconda da un cittadino siciliano e palermitano d’adozione. Oriana Messina docente presso l’I.C. Da Vinci- Carducci di Palermo era ancora bambina quando- nel settembre del 1990 ha sentito per la prima volta dai suoi genitori il nome del magistrato, così: lo hanno ammazzato come a Chinnici, riferendosi all’omicidio del giudice Rosario Livatino. Interessata a scoprire chi fosse Rocco Chinnici chiese spiegazioni ma vista l’età non ricevette risposta. Ma Oriana non si arrende, cresce, studia, si laurea, diventa insegnante ed in tutte queste fasi della sua vita proverà a conoscere ad informarsi di questo giudice rivoluzionario e gentile, mai conosciuto personalmente che “agli studenti che ebbero la fortuna di incontrarlo tentava di far comprendere loro il bene più prezioso: la libertà, di essere, di agire, di parlare, raccontando anche scomode verità in nome di mamma Giustizia”. La professoressa è affascinata da questa figura limpida e dai sani principi così tanto che nel suo percorso didattico racconta sempre la storia di “Nonno Rocco” …” da ragazzina più scoprivo chi egli fosse e più lo sentivo - parte di casa- era il mio eroe, il nonno di cui sarei andata fiera”. E tutto quanto ha acquisito circa il carattere dell’uomo e la conoscenza professionale del Consigliere istruttore, Oriana Messina lo trasmette bene ai suoi ragazzi, smuove le loro coscienze tocca le loro corde emotive, tanto che pur essendo in periodo Covid con incontri e lavoro scolastico da remoto…non ci si dimentica del compleanno di Chinnici a ridosso del collegamento video con il figlio del giudice Giovanni e del nipote Rocco. Tutti vorrebbero fare qualcosa…da parte degli studenti è un pullulare di proposte e alla fine l’idea vincente arriva: “Prof. ma se facessimo una video lettera e regalassimo una simbolica pianta di rose? (il magistrato amava le rose, la sua passione, ne aveva 100) - Prof. Potremmo chiamarla Rosa 101…Prof però dovrà essere bianca perché candida come l’anima di Rocco, non rossa come il sangue del suo ultimo giorno…bianca come i giorni che ha vissuto”. Da qui la nascita di Rosa 101! …… Cibo per la memoria è la seconda storia raccontata da Rino Duca, Chef e titolare dell’osteria “Il Grano di Pepe”. Nitidi sono suoi ricordi di quegli anni. Rino da piccolo aveva la passione per i libri, giocava come tutti i bambini nei vicoli di Palermo ma i suoi occhi ogni giorno che passava dalle edicole si soffermavano sui titoli dei giornali pieni di notizie di morti ammazzati per mafia. Uno di questi lo colpì…era L’Ora di Palermo che usciva all’una circa, con un’edizione più importante, in rosso e in nero, decisamente dal forte impatto. Il 30 luglio del 1983…titolava in questo modo: “Palermo come Beirut”. “Mi vennero i brividi…e tu, a tredici anni, non riesci a dare un nome alle emozioni che provi, ma da adulto sì, e quel giorno ebbi paura e angoscia…perché temevo di vivere in un posto senza speranza”. Ciò non lo distoglie dai suoi sogni, dalle sue attitudini, dagli studi alla scuola alberghiera, all’Università in Scienze politiche. Per lui la politica era intesa come strumento per cambiare il mondo e lottare per ottenere più giustizia. Ma dopo la strage di Capaci tutto cambia: “sentivo che non avevo più nulla da spartire nella mia amata-odiata terra così feci le valigie e me ne andai a Modena” Una nuova pagina di vita gli si offriva nel mondo culinario. Rino apre un Ristorante in quel di Ravarino, sembra essersi messo tutto alle spalle tutto di quegli anni, di quei mesi, di quei giorni di sangue sulle strade, di dolore, impotenza, di affanno e di paura. Ma a Palermo quel “clima” drammatico permaneva, nonostante il risveglio graduale delle coscienze e la reazione dei cittadini onesti. Nell’estate del 2014, torna in Sicilia e il volo del suo rientro a Modena dall’aeroporto Falcone/Borsellino è programmato per il 29 luglio, l’anniversario dell’uccisione di Rocco Chinnici. Ad un tratto gli riaffiorano istantanee di ricordi di quell’indimenticabile 1983, di quella bella persona che si era immolata per rendere più respirabile la vita in libertà dei palermitani, dei siciliani, degli italiani brava gente. Rino lo vuole omaggiare prima di partire, ce la fa…ma va oltre. Di fronte ad un’atmosfera di freddezza/assenza della cittadinanza in quel di Pipitone Federico, 59…non si dà pace: << Ma com’è possibile mi chiesi, Rocco Chinnici è stato un padre per tutti noi, un baluardo di legalità, come può una città dimenticare così in fretta?” E allora ha un’originale intuizione… Chef Rino vuole fare qualcosa anche lui -nel suo piccolo- per non dimenticare quel giudice istruttore e la trova facilmente aiutato dai suoi fornelli, dalla sua cucina, dai suoi ingredienti, sì proprio dagli strumenti di lavoro…inventa, crea un piatto, un piatto della memoria che si chiamerà “1983”…come ci arriverà, come lo farà? Questo lo lasciamo alla curiosità di chi vorrà leggersi il libro dedicato a Rocco Chinnici, un testo che agli occhi di chi vi scrive è risultato non solo piacevolmente scorrevole, incalzante, ma ben impostato sul piano del format, dello stile oltre che dei contenuti profondi e toccanti. Lanciamo solo un piccolo indizio; la prima pagina dell’Ora del 30 luglio 1983, sarà uno dei protagonisti del piatto, sì essa diventerà un “cuoppo” …e ci fermiamo qui! “Il cibo, la vita che va a braccetto anche con la morte- scrive Rino Duca- che io speravo diventasse memoria. Oggi quel piatto, realizzato con ingredienti di stagione, suscita silenzio, omaggio, rispetto, quasi preghiera ogni volta che lo porto in tavola ai miei clienti. Perché io non voglio, non devo e non posso dimenticare” E noi non dimenticheremo insieme a lui, Rocco Chinnici che in un’intervista disse: “Un giudice siciliano in Sicilia è anche sempre un uomo solo. Orgogliosamente solo”. Grazie di tutto “Nonno Rocco”.
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