
di TERESA MENGANI
A Catanzaro la mancanza d’acqua non è più un’emergenza straordinaria, ma una condizione ricorrente che accompagna la vita quotidiana dei cittadini da decenni. Interruzioni improvvise, razionamenti programmati, rubinetti a secco per ore o giorni interi: situazioni che si ripetono ciclicamente e che finiscono per essere accettate con una rassegnazione che, forse, è l’aspetto più preoccupante di tutti.
Il problema non nasce oggi, né può essere attribuito a un singolo evento contingente. È il risultato di una rete idrica obsoleta, segnata da perdite enormi, di interventi tampone che si susseguono senza mai affrontare la questione strutturale. Da anni si parla della necessità di rifare l’acquedotto, di modernizzare infrastrutture che risalgono a epoche in cui i bisogni e i carichi erano incomparabilmente diversi. Eppure, una soluzione definitiva non è mai arrivata.
Questa incapacità di risolvere un problema essenziale come l’accesso continuo all’acqua potabile ci colloca inevitabilmente lontano dagli standard dei Paesi più progrediti, dove l’acqua è un servizio garantito e invisibile, proprio perché funziona. Qui, invece, diventa un tema quotidiano di conversazione, un’organizzazione forzata della vita domestica, una preoccupazione costante per famiglie, anziani, attività commerciali e servizi pubblici.
Nel corso degli anni, la classe politica che si è avvicendata non è riuscita a reperire , o a utilizzare in modo efficace, i fondi necessari per affrontare il problema in modo risolutivo. E questo nonostante l’esistenza di finanziamenti nazionali ed europei destinati proprio al miglioramento delle infrastrutture e alla riduzione delle disuguaglianze territoriali. Occasioni che sembrano essere passate senza lasciare un segno concreto, mentre il tempo ha continuato a logorare una rete già fragile.
In questo contesto, appare inevitabile un confronto con le grandi opere di cui spesso si discute a livello nazionale. Parlare di progetti imponenti come il ponte sullo Stretto rischia di suonare fuori luogo quando le stesse regioni che si vorrebbero collegare convivono con carenze così gravi nei servizi essenziali. Prima di immaginare collegamenti simbolici e infrastrutture avveniristiche, sarebbe forse necessario garantire ciò che dovrebbe essere scontato: acqua, sanità, trasporti funzionanti.
Il disagio di Catanzaro non è solo materiale, ma anche culturale e civile. È il segno di un ritardo che si autoalimenta, di una normalizzazione dell’inefficienza che abbassa le aspettative e rende più difficile pretendere soluzioni. Eppure, proprio da qui dovrebbe partire una riflessione seria: senza interventi strutturali, senza una visione di lungo periodo, problemi come questo continueranno a ripresentarsi, lasciando intere comunità a fare i conti con un futuro che assomiglia troppo al passato.
L’acqua non è un lusso, né una concessione temporanea. È un diritto fondamentale. E il fatto che, ancora oggi, a Catanzaro questo diritto non sia pienamente garantito dovrebbe interrogare tutti, al di là delle appartenenze politiche e delle promesse cicliche. Perché il vero progresso comincia dalle cose essenziali.
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