Missione Flotilla, Cimino: “Quando i portatori di pace sono accusati dai guerrafondai di fare la guerra”
Franco Cimino
28 settembre 2025 10:33di FRANCO CIMINO
Come per i drammatici fatti dello stupro, quando di fatto si accusa la vittima di essersela cercata. La formula è quasi sempre la stessa: se lei non fosse andata lì, se non fosse rimasta troppo a lungo in discoteca, se non fosse uscita di casa la sera, se non avesse indossato l’abito stretto o la minigonna o la camicia scollata, se non avesse rivolto la parola a uno sconosciuto, se non avesse bevuto un po’, magari anche solo due cocktail, se e se e se… Insomma, il dolore e il delitto si riducono dinanzi alla provocazione. È già tanto che vi sia una legge che negli anni è diventata più rigorosa, cosa utile e giusta, purché ad applicarla vi sia un giudice giusto e onesto, senza neppure doversi preoccupare che, se uomo, possa avere un residuo di cultura maschilista.
Come per lo stupro, quindi, così si giudica la missione di Flotila: quelle cinque fragili imbarcazioni battenti bandiere diverse, una anche italiana, che attraversano un lungo e pericoloso mare per compiere una delle più belle missioni di pace. Quella di portare il sentimento umanitario più necessario in tempi di guerra, in cui l’aggressione del potente sul più debole non è più atto militare ma azione disumana contro persone disarmate. Disarmate non solo delle armi, ma anche della forza fisica con cui poter guardare in faccia il nemico che le uccide.
E quando soldati super armati, trasformati in belve feroci, abbattono con la più cieca violenza donne, vecchi e bambini, lo fanno con la stessa facilità e con le stesse bombe con cui hanno abbattuto palazzi, scuole, università, chiese, templi religiosi, fabbriche, ponti e strade, il mondo è come si fosse rotto in più parti. Ma che guerra è questa che si consuma dalla Striscia di Gaza fino al sud della Cisgiordania? L’esercito più potente del mondo, quello israeliano, contro centinaia di migliaia di uomini e donne disarmati. Che guerra è quella in cui si predica l’odio contro un intero popolo e si dichiara apertamente la volontà di annientarlo, affinché non resti traccia della sua vita, della sua storia, della sua cultura? Non resti in piedi energia che cammini sulle gambe di uomini, di giovani e di bambini che vogliano ricostruire la propria storia e proiettarla nel futuro. Un futuro in cui si possa ritornare a vivere nella terra dalla quale sono stati cacciati, delimitata da confini aperti che ne istituzionalizzino quello Stato che, finora, insieme alla terra, è stato loro negato.
Ma questo lo diciamo noi, da qui, da questo semplice spazio giornalistico, lanciando parole che fuoriescono dal petto, poiché la bocca non sa più proferirle asciutta com’è di rabbia e di dolore. Lo ripetiamo noi che non abbiamo nulla da offrire alla pace se non la nostra coscienza e la nostra indignazione morale nei confronti di ogni atto che si rappresenti come nemico della vita. Lo diciamo noi da qui, arrabbiati per il dovere di prendere parte, quando per noi l’umanità non ha distinguo, non ha recinti entro i quali racchiudere i cattivi per separarli dai buoni.
Rabbia di dover essere considerato di parte dai partigiani del versante opposto. Quelli ideologicamente impostati su una logica di potenza che tanto alletta uomini miseri e politici mediocri, che si sentono forti se possono prevalere con la prepotenza e la sopraffazione nei confronti dei deboli e degli oppressi. Uomini meschini che, in ogni parte del mondo, cercano l’uomo “super forte” per realizzare quella sorta di internazionale della paura e del terrore con la quale, accrescendo il divario fra i pochi ricchi e gli innumerevoli poveri, possano governare l’intero pianeta, modificando lo spirito della democrazia e ferendo il sentimento più profondo che umanizza la libertà e la fa muovere lungo il sentiero della pace.
Quella vera, fatta di prosperità e ricchezza equamente condivise, fra popoli e nazioni, persone e cittadini, secondo la ricchezza che essi stessi costruiscono e i bisogni che più particolarmente si aggravano in molte parti della popolazione mondiale. Ma di questo possiamo parlarne noi, che non abbiamo nulla da fare. E mastichiamo le parole mentre beviamo una bella birra fresca o un cocktail al bar con gli amici.
Ma loro, i soldati disarmati di Flotilla, stanno navigando da giorni non per fare la guerra, ma per salvare le persone dalla guerra, colpite nell’ultima fase dall’arma più letale: la fame, che ne sta uccidendo molti di più delle bombe. Stanno portando viveri e medicinali, indumenti, non munizioni. E lo fanno a rischio della propria vita e del dolore dei familiari, che quelle morti subirebbero atrocemente.
Fare di questa missione nobile, umana e cristiana, un’altra volgare occasione per uno scontro tra forze politiche, che strumentalizzano anche le morti dei bambini per prevalere sull’avversari, è davvero cosa meschina. Attaccare, anche dalle assemblee elettive più solenni, nazionali e internazionali, gli uomini e le donne che sono in navigazione con quel carico di vita, definendoli addirittura una sorta di fazione politica per attaccare qualche governo, è davvero un atto inaccettabile.
Un atto che si rappresenta comunque contro la democrazia e contro il senso umano della storia. E, per quanto riguarda i paesi più fortemente democratici, come il nostro, un atto grave contro la Costituzione e i suoi valori fondamentali. Discutibile appare poi anche la raccomandazione rivolta da altissime personalità ai marinai della speranza, in viaggio della speranza, di “dirottare” verso Cipro, dove consegnare gli aiuti umanitari per essere trasferiti ai palestinesi attraverso altre mani, come se quelle dei membri di Flotilla fossero indegne o in qualche modo sporche.
L’avviso, poi, che quelle imbarcazioni, entrando nelle acque di Gaza per raggiungere quel territorio, sarebbero non solo in pericolo ma suscettibili della reazione dell’esercito israeliano, che considererebbe quella missione come una provocazione inaccettabile, se non addirittura un atto di guerra contro il quale reagire duramente, è assurdo. Ma quel territorio non è dei palestinesi? E quel mare non è il mare della Striscia, che non appartiene a Israele?
E infine: perché gli ammonimenti dei paesi occidentali, invece che a quelle imbarcazioni, non vengono rivolti al capo del governo israeliano, con il chiaro avvertimento che, se solo un graffio venisse fatto sul corpo dei volontari di Flotilla, Israele riceverebbe quelle dure sanzioni che per due anni nessuno dei governi occidentali, dagli Stati Uniti all’Europa, ha inteso comminare?
Non si tratta di fare la guerra contro Israele, come con ironia irriguardosa ha detto la più potente autorità del nostro Paese oggi. No, si tratta solo di difendere chi va a difendere uomini e donne indifesi, abbandonati da Dio e dai governanti. Non dal vero Dio, ma da quello dei governanti. Perché qui da noi, nel mondo cosiddetto civile, si è lasciato fare liberamente a chi, spinto dall’odio, si è sentito di svolgere — come ha detto qualcuno in Europa — “il lavoro sporco per sistemare tutto il Medio Oriente”. Il lavoro sporco che noi non avremmo il coraggio di fare.
Vergogna! Questo lavoro non deve essere completato. E comunque non è fatto a mio nome.
Come a nome degli uomini e delle donne liberi, che ancora credono nella libertà. Di tutti. Anche se stanchi e logorati dalle lunghe crisi economiche e dalla psicologia del terrore, non si battono ancora con determinazione per difendere la libertà. Pure la propria.