di FRANCO PETRAMALA
"Che Giorgio Napolitano parteggiasse per l’invasione russa dell’Ungheria del 1956. Io lo so che così facendo difese “lealmente” gli accordi di Yalta, fedele alla causa della Russia sovietica. Poi dichiarò di essersene pentito, sulla tomba di Imre Nagy il Presidente Ungherese deposto.
Io lo so che Napolitano, interpretando alla sua maniera le tesi di Giorgio Amendola, divenne il promotore della corrente dei “Miglioristi”, ponendosi in alternativa ai dubbi ma alle aperture di Berlinguer alle proposizioni di Aldo Moro. Nel 1977 lo incontrai per caso in un ristorante di Cosenza di via Nicola Serra. Era in compagnia di Franco Ambrogio, Segretario Regionale del PCI, che mi presentò, opportunamente, come il Segretario Regionale della DC convinto delle tesi di Aldo Moro. Napolitano fece una impercettibile smorfia di disappunto e mi disse di non essere d’accordo con quella prospettiva accennando una motivazione. La conversazione non durò molto di più.
Io lo so che non volle sciogliere le Camere, dopo il fallimento del tentativo di Bersani di formare il governo, preferendo un tormentato percorso politico che finì per avvantaggiare i 5 stelle, pur di non ridare la parola al popolo, ritenendo bastevole il suo avviso.
Io lo so che maramaldeggiò davanti ai parlamentari, inermi, schiaffeggiati nel discorso della sua riconferma, tanto i presenti mostrando che gli schiaffoni non fossero loro diretti. Si ripetevano, “tanto l’insolentito non sono io, certamente è Pasquale ed io non sono Pasquale” come nella gag di Totò.
Scene di vanesie percezioni della debolezza di importanti Istituzioni, di cui rimarranno in eredità le frustrazioni. Tanto defedato appariva il Paese, da esserlo e da gran tempo in balia degli astuti".
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