'Ndrangheta, 29 anni fa l'agguato sull'A3 in cui morirono due giovani Carabinieri

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  18 gennaio 2023 13:31

Sono passati 29 anni. Il 18 gennaio del 1994, in un'Alfa 75 del Nucleo radiomobile di Palmi, giacevano i corpi senza vita degli appuntati Antonino Fava, 36 anni, padre di tre figli, di Taurianova (Reggio Calabria) e Vincenzo Garofalo, 31 anni, due figli, di Scicli (Ragusa), coperti da un lenzuolo bianco steso da una mano pietosa. Attorno all’automezzo, decine di loro colleghi, in divisa e in borghese, magistrati, prefetto, questore e uomini dei servizi, cercavano di dare una prima interpretazione, una traccia di lavoro, dinanzi a quell’agguato eseguito con freddezza, con tecnica “terroristica” a colpi d'arma da fuoco.

Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, poco prima delle 200, erano partiti dal carcere di Palmi per ispezionare la corsia sud dell’autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, fino a Villa San Giovanni, per garantire la sicurezza di un gruppo di magistrati di Messina giunti a Palmi per interrogare il pentito “che girava in Ferrari”, Luigi Sparacio. Gli inquirenti, infatti, dovevano rientrare nella città siciliana e c’era il timore che potessero essere oggetto di attentati.

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Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, non appena si immettono sull’autostrada, si accorgono di essere seguiti da un’autovettura – una Fiat Regata, si scoprirà dopo – e lo comunicano ai loro colleghi in centrale. Ma permane il sospetto che qualcosa non quadri nel comportamento di chi guida la Regata, che procede quasi attaccata all’Alfa 75 dei carabinieri, con gli abbaglianti accesi. Non c’è più il tempo di una seconda segnalazione in centrale: la berlina affianca la vettura del Nucleo radiomobile e si scatena l’inferno. Contro Antonino Fava e Vincenzo Garofalo verranno esplosi decine di colpi di fucile caricato a pallettoni e raffiche di mitra, che ne provocano la morte immediata. L’Alfa 75, ormai senza controllo, finisce la sua corsa contro il guardrail, a poco meno di tre chilometri dello svincolo autostradale di Scilla. Il parabrezza dell’Alfa 75, con i lampeggianti accesi, presenta i fori, perfettamente allineati, delle pallottole calibro 9 lungo, vomitati da una pistola mitragliatrice Beretta M12 in dotazione alle forze dell’ordine, mancante del numero di punzonatura e, come si saprà poi, finita nelle mani del killer della ‘ndrangheta Giuseppe Calabrò, condannato all’ergastolo e poi pentito, usata in altri due attentati ai Carabinieri di Reggio Calabria: il primo dicembre del 1993, con il ferimento dei militari Silvio Ricciardi e Vincenzo Pasqua, e il 1 febbraio 1994, due settimane dopo l’assassinio di Fava e Garofalo, contro Salvatore Serra e Bartolo Musicò, anche loro scampati miracolosamente alla morte. Una cruenza di episodi che spingerà gli investigatori ad allargare gli orizzonti ben oltre le classiche indagini contro il crimine organizzato e mafioso.

Con il passare dei mesi, infatti, l’attacco contro i carabinieri assume i contorni di un ben più vasto disegno criminale che porterà lontano, fino ai nostri giorni, con le inchieste sulle stragi di Cosa nostra e di ‘Ndrangheta stragista. Un disegno terroristico avvalorato dai giudici di merito di Reggio Calabria, che condanneranno all’ergastolo in primo grado il boss di Cosa nostra Giuseppe Graviano e il capo ‘ndrangheta di Melicucco (Reggio Calabria), Rocco Santo Filippone, quali mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, “frutto della visione comune di Cosa nostra e ‘Ndrangheta, che avevano tentato di coinvolgere anche la camorra. Tre efferati attacchi per unico disegno eversivo”.

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Le indagini sui tre agguati ai carabinieri subirono anche tentativi di depistaggio, con il tentativo di addossare la responsabilità dell’uccisione di Fava e Garofalo al solo killer pentito Francesco Calabrò, che avrebbe reagito per paura di essere controllato mentre trasportava con altri complici sulla Fiat Regata un carico di armi e di stupefacenti acquistati nella Piana di Gioia Tauro. Manovra ben presto evaporata dalla decisione di pentirsi di Francesco Calabrò e Consolato Villani – quest’ultimo nipote di Rocco Santo Filippone e del boss Antonino Lo Giudice - che al momento dell’agguato si trovava anch’egli sulla Regata da cui partirono i colpi letali contro i due carabinieri.

Nel processo "'Ndrangheta stragista", in via di definizione dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria contro Filippone - "uomo riservato al servizio dei Piromalli”- e Graviano, emergono nitidamente i rapporti costanti tra 'Ndrangheta e Cosa Nostra, “un 'unicum' – come ha detto il Procuratore distrettuale Giovanni Bombardieri - inserito all'interno di una delle pagine più oscure e dolorose della Repubblica. E noi - ha assicurato il magistrato - faremo di tutto per fornire quel contributo che tutta l'Italia si aspetta per giungere alla verità completa ed ai mandanti di queste tragedie". 

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