Nelle case popolari di ‘Arghillà, quartiere della periferia nord di Reggio Calabria, secondo le indagini del recente passato, dominano i fratelli Cosimo, detto ‘Cocò’, Andrea e Fabio Morelli, federati alle cosche “Rugolino” e “Condello”, coinvolti nell’operazione ‘Eracle’ nel 2017. ‘Arghillà’, con l’arrivo dei rom, si è trasformato in una fiorente piazza di spaccio e di compravendita di oggetti, anche armi, spesso frutto di furti ai danni della popolazione della zona. Stesso livello di allarme per i quartieri ‘Ciccarello’ e ‘Marconi’, nella periferia sud di Reggio Calabria, dove sono attivi gli Amato e i Berlingieri, dove si contano quotidianamente furti in abitazioni, rapine, scippi, e la vendita di stupefacenti è cresciuta a dismisura, come testimonia la recentissima operazione della Dda sulla cosca ‘Borghetto-Latella’. In questi due quartieri, il leader indiscusso dei rom, secondo gli inquirenti, è Cosimo Berlingieri, detto ‘il pappagallo’, condannato a dieci anni per associazione mafiosa, salito alla notorietà per avere aggredito pubblicamente e in maniera violenta un noto imprenditore reggino del ramo della ristorazione che non aveva pagato la tangente agli emissari della cosca ‘Libri’.
Da piccola criminalità predatoria, a ‘bastone’ della 'ndrangheta calabrese. Ormai hanno pochi dubbi gli inquirenti, reggini e calabresi, sulle inquietanti connessioni tra blasonate cosche di ‘ndrangheta e delinquenza di etnia rom. La ‘Ciambra’ di Gioia Tauro, contrada ‘Scordovillo’ di Lamezia Terme, i quartieri cittadini di ‘Arghilla’ e ‘Ciccarello’ a Reggio Calabria, alcune zone della Sibaritide, i quartieri dell’area est di Catanzaro, sono diventate zone dove lo Stato fatica parecchio a imporre le proprie leggi. L'’ultima operazione della procura della Repubblica di Reggio Calabria, nei suoi contenuti, riconferma con nettezza l’organicità di alcuni violenti gruppi di criminalità rom agli obiettivi della ‘ndrangheta: spedizioni punitive nei confronti di imprenditori che rifiutano di pagare la ‘mazzetta’, incendi e danneggiamenti, furti di autovetture e di automezzi restituiti con l’odiosa pretesa del cosiddetto ‘cavallo di ritorno’, un riscatto da pagare per avere restituito il proprio automezzo.
“Il modus operandi - scrivono gli inquirenti - era sempre lo stesso. Il gruppo degli arrestati odierni agiva in maniera consolidata e sistematica”. Forzando cancelli e porte di ingresso, “con inusitata spavalderia” si introducevano nei cantieri impadronendosi di attrezzi da lavoro e mezzi pesanti senza alcuna titubanza “pur di assicurarsi la refurtiva, allontanandosi da tali luoghi a bordo dei mezzi rubati, attraversando la città, confidando evidentemente nell’impunità”.
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