Il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Catanzaro si oppongono al ricorso dell’avvocato Francesco Saraco, radiato dal Consiglio distrettuale di disciplina. Il legale, coinvolto nell'operazione "Genesi", è stato condannato con rito abbreviato ad 1 anno e 8 mesi di reclusione e al pagamento di 260mila euro in favore del ministero della Giustizia. E' accusato di corruzione in atti giudiziari. Il Consiglio dell'ordine degli avvocati di Catanzaro è rappresentato dagli avvocati e consiglieri Aldo Casalinuovo e Felice Foresta.
“Gli addebiti disciplinari elevati a carico dell’avvocato risultano, ampiamente provati e correttamente posti a fondamento della più grave sanzione disciplinare irrogata, quella della radiazione dall’Albo professionale. La responsabilità di Saraco si riferisce a fatti di estrema gravità che hanno interessato il Distretto giudiziario di Catanzaro e che hanno suscitato clamore mediatico e particolare attenzione nella pubblica opinione, non solo locale, per la loro oggettiva rilevanza. Orbene, come correttamente affermato nel provvedimento impugnato, le condotte contestate all’odierno incolpato violano gravemente i doveri e le regole di condotta, i generali e principali precetti che un avvocato – inteso come iscritto ad un albo – deve osservare non solo nell’attività professionale, ma anche al di fuori della stessa, per il principio di affidamento che l’ordinamento giuridico pone nell’attività forense e nei principi imprescindibili di indipendenza, probità, decoro, dignità…” che all’avvocato stesso devono, sempre, necessariamente riferirsi”.
I comportamenti contestati al ricorrente sono reputati gravi e “violativi dei doveri cardine dell’avvocato e tali da ledere grandemente l’immagine dell’intera classe forense, costituisce, nella valutazione complessiva degli stessi, il sostrato ineludibile della sanzione inflitta, del tutto coerente e congrua”. La condotta contestata a Saraco, per il Coa, “si inserisce nell’ambito proprio e di elezione dell’attività forense – quello dell’esercizio della potestà giurisdizionale – risultando finalizzata alla alterazione e alla distorsione dei doveri di correttezza ed imparzialità delle funzioni giudiziarie. La contestazione di corruzione in atti giudiziari è per un avvocato contestazione di eccezionale gravità (ovviamente, ancor più qualora la condotta, come nel caso in esame, risulti accertata), implicando non soltanto una grave ricaduta sociale in termini di detrimento della funzione giudiziaria, ma anche uno svilimento straordinariamente incisivo della cultura dei diritti e della difesa del cittadino di cui l’Avvocatura è fondamentale soggetto attivo, anzi trainante, in una società civile e democratica. L’avvocato che accede a pratiche corruttive in sede giudiziaria dimostra di non credere nella propria alta funzione di tramite qualificato tra il cittadino e l’ordinamento giuridico e statuale e di non poter più onorare l’impegno solenne – denso di significato – pronunciato al momento di vestire per la prima volta la toga dell’avvocatura, ‘consapevole della dignità della professione forense e della sua funzione sociale, mi impegno ad osservare con lealtà, onore e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia ed a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento’.
“La condotta confessoria di Sacaco e l’assenza di una seria e consapevole resipiscenza – per come stigmatizzato nella decisione del Cdd impugnata – portano ancor di più a ritenere che il trattamento sanzionatorio adottato dal giudice disciplinare di primo grado risulti congruo ed adeguato al caso specifico. La dedotta assenza di una seria e consapevole resipiscenza così come già disapprovata, per quel che qui rileva, è sintomatica del comportamento di chi sembra disconoscere ostinatamente la rilevanza disciplinare del proprio contegno ampiamente, invece, acclarato da inoppugnabili evidenze probatorie. Sicché essa s’innesta quale concreto indice di inadeguatezza alla ricezione dei canoni deontologici cui deve essere informata la condotta di un avvocato e la loro portata. Per il Coa rileva sopra ogni altro aspetto, il grave danno all’immagine per l’intera avvocatura per fatti posti in palese violazione dei principi comportamentali “che devono ispirare la condotta dell’Avvocato in ogni frangente e vieppiù nell’ambito di azione proprio dell’esercizio professionale. Non può, da ultimo, sottacersi, alla luce dell’incarto processuale, l’irrefragabile volontarietà da cui è stato intessuto il complessivo comportamento antigiuridico del ricorrente. Tale circostanza, certamente, involge una valutazione in termini di disvalore sociale particolarmente rigorosa; ma, per quel che in questa sede rileva, si configura come ulteriore elemento di sostegno all’irrogata sanzione. Non può, infatti, revocarsi in dubbio che porre in essere i fatti contestati nella consapevolezza della loro antinomica dimensione rispetto all’ordinamento giudiziario e forense codifica una indubbia avversione ai precetti normativi e regolamentari. Avversione tale da giustificare la sanzione irrogata, stante un chiaro vulnus, anche in termini prognostici, alla funzione di cooperazione tra il cittadino e l’ordinamento che un avvocato è chiamato a svolgere. Tutte le motivazioni che hanno spinto il Coa a chiedere al Consiglio nazionale forense la conferma della decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Catanzaro che il 30 ottobre 2020 ha radiato l’avvocato Saraco".
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