DI FILIPPO VELTRI
Nel Pd Goffredo Bettini fonda «un’area di pensiero plurale», Paola De Micheli «un’associazione di cultura politica» e Marco Furfaro «una rete aperta». Tre nuove correnti che la pensano diversamente dalle otto già esistenti, però tutte e undici concordano con Letta su un punto: basta con le correnti! Aiuto che mi viene da ridere!
Basterebbe solo questo per delineare il quadro dell’attuale tragedia del Pd targato Letta. I sondaggi contano quel che contano e da tempo non intercettano i cambiamenti veri dell’animo politico degli elettori, soprattutto se fatti lontano dal clima preelettorale. Ma il sorpasso – registrato qualche giorno fa – del partito di Giorgia Meloni sul Pd dovrebbe far sobbalzare più di un sincero democratico. E non solo per gridare “Allarmi, son fascisti!”. Ma su quel fronte tutto tace.
Secondo segnale. Quella proliferazione di cui s’e’ detto sopra delle correnti interne, che in questi giorni hanno visto la nascita della formazione ispirata da Goffredo Bettini (le “Agorà democratiche”), quella di Anna Ascani (“Energia democratica”) e quella nata dall’iniziativa di diversi parlamentari come Marco Furfaro, Paola De Micheli e Nicola Oddati (“Prossima”). Tutte nate, e anche questo è singolare, con l’obiettivo di “unire il Pd”. Come se già quel partito non fosse balcanizzato – tra lo sgomento e l’impotenza dei militanti, anche quelli che hanno forti radici e passioni in quella casa – occupato a dividersi federazioni posti di potere e perfino sezioni, in preda a cacicchi territoriali vari stile De Luca. E non c’e’ solo lui!
Insomma del tutto disinteressato alla politica vera, quella che si fa nei territori. In bocca a chi considera questa la politica che conta, la parola “periferie”, una delle più gettonate nel caso di elezioni comunali e regionali, suona alle orecchie di chi vive nelle zone con più difficoltà sociali come una beffa e una bestemmia.
Terzo segnale. La debolezza di Enrico Letta. Il quale con grande generosità ha preso le redini di un Pd in grande difficoltà, sostituendo uno Zingaretti dimissionario perché indignato da quel che avveniva nelle ramificazioni del partito. Una generosità che rischia di fargli fare la fine del vaso di coccio, spintonato da questa o quella componente, senza riuscire a trovare una sintesi. Proprio lui che aveva detto, appena insediato, “Un partito che lavora per correnti come qui da noi non funziona. Dobbiamo superare insieme questa sclerotizzazione”. Una riforma annunciata, segnalata dall’analisi rigorosa e impietosa di Fabrizio Barca; una riforma auspicata da chi guardava (lo farà ancora?) a quel partito come almeno a un puntello democratico. Puntello di che? Al momento l’unica cosa che sembra andare bene e’ il suo libro, con la terza ristampa annunciata.
Lo spettacolo è insomma disperante. Altro che puntello, quel partito è quasi un ostacolo! Al puntoi da portare un noto intellettuale come Biagio de Giovanni ad grido disperato: Aridatece Zingaretti!
Basta poi vedere quel che avviene in preparazione delle amministrative di autunno di cui la Calabria e’ un fulgido esempio. Tra sordide lotte fratricide romane e locali; tra autocandidature poggiate sul nulla c’e’ una povertà estrema di energie e di idee da mettere in campo. Eppure dopo l’ultimo ritiro di Nicola Irto dalla corsa alla Presidenza il Pd (ma anche Leu e 5 Stelle) un candidato l’avrebbero gia’ pronto (e’ Enzo Ciconte) ma ancora tergiversano!
In questa situazione coltivare grandi speranze rischia, dunque, di essere un esercizio stucchevole, parolaio e ripetitivo. Quindi inutile. C’e’ bisogno di un nuovo contenitore e alla fine dell’era Draghi questo avverra’. Statene certi.
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