Le rivolte carcerarie e le politiche penali al tempo del Coronavirus

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L'avvocato Orlando Sapia
  23 marzo 2020 17:46

All’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle il giornalista Tiziano Terzani scrisse all’amico Ferruccio De Bortoli, al tempo direttore del Corriere della Sera, una lettera dal titolo “Una buona occasione” che venne poi pubblicata sul quotidiano. Terzani, al contrario della moltitudine che invocava l’immediata rappresaglia quale risposta all’attentato dell’11 Settembre, spiegava nella lettera che si trattava di una buona occasione per tentare di conoscere e comprendere le ragioni dell’altro, anziché rispondere subito con l’uso della forza, e così negoziare, fare la pace piuttosto che la guerra. Così non fu, si fece la guerra. Una guerra che ancora oggi dura, che ha fatto crescere il fondamentalismo islamico e reso più deboli le rappresentanze laiche del mondo islamico, che dall’Afganisthan si è estesa a tutto il Medioriente sino al Nord Africa.

Una guerra che ha prodotto conseguenze anche all’interno dei singoli stati, dal momento che, a seguito degli attentati che hanno interessato vari paesi, il ruolo di tutto il sistema penale è stato rimodellato per far fronte alle nuove esigenze di sicurezza. E’ sorta, così, una politica criminale internazionale finalizzata alla difesa contro ogni minaccia interna o esterna, anche tramite misure che comportano il venir meno delle garanzie generalmente riconosciute in campo penale, processuale e penitenziario. Sono stati creati circuiti differenziati, a seconda di destinatari, e si è passati dal diritto penale del cittadino, riservato a chi si ritiene rispetti le condizioni essenziali del patto sociale, ad un diritto penale del nemico, riservato a chi, ponendosi in modo antisistemico, non merita più la tutela accordata al cittadino. Infatti, se il  campo di prigionia di Guantanamo o il sistema delle “extraordinary rediction” sono da considerarsi la parte più visibile di questa nuova declinazione della penalità, esistono altri esempi molto spesso sottaciuti perché apparentemente meno eclatanti.

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Tale contesto storico politico ha comportato una generale implementazione del diritto penale quale strumento per il governo della società. Gli esempi sono molteplici e quotidiani, anche solo limitando l’analisi agli ultimi anni: si è assistito all’aumento degli edittali delle pene in tutti i reati predatori, già puniti in modo piuttosto severo dal legislatore degli anni 30,  alla reintroduzione di reati quali il blocco stradale ed il divieto di accattonaggio, all’aumento spropositato delle pene per le occupazioni di terreni ed edifici, ad incomprensibili paletti tesi a limitare l’uso del giudizio abbreviato e ad una riforma dell’istituto della prescrizione, tanto inutile quanto dannosa per il sistema penale tutto. Quanto sopra esposto è solo una incompleta panoramica delle novità varate dagli ultimi governi che hanno fatto del populismo penale il proprio cavallo di battaglia.

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Risultato di queste politiche, nonostante la palese diminuzione dei tassi di commissione dei reati, è stato il costante incremento della popolazione detenuta che il 30/01/20 ha toccato la cifra di 60.971 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 50.692, con ciò segnando un tasso di sovraffollamento ufficiale del 120% .[1]     

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Al costante sovraffollamento, che è valso allo Stato italiano varie condanne internazionali per violazione dei diritti umani, si devono aggiungere lo stato della maggioranza degli istituti penitenziari, in cui le condizioni sono precarie, l’assistenza medica è ridotta all’osso, la popolazione detenuta è in molti casi affetta da una serie di patologie fisiche e psichiatriche, tipiche di chi è costretto ai margini sociali. Una bomba pronta a scoppiare alla prima scintilla.

Così, in questo tempo di emergenza sanitaria nazionale dovuta alla diffusione del coronavirus, le rivolte dei detenuti hanno infiammato ben ventisette istituti di pena, riportandoci indietro di mezzo secolo. Era dagli anni settanta, infatti, che non si assisteva ad una rivolta così generalizzata delle carceri. Erano gli anni in cui la vita penitenziaria era regolata dal vetusto regolamento Rocco e tra i mezzi di disciplina vi erano anche i letti di contenzione. Erano gli anni in cui i detenuti erano solo soggetti privati della libertà e non soggetti titolari di diritti.

La riforma dell’ordinamento penitenziario, Legge n. 354 del 1975, ridisegnò l’ordinamento penitenziario, fece del detenuto un soggetto titolare di diritti, sebbene privato della libertà personale, affermò in conformità all’art. 27 della Cost. la finalità rieducativa del trattamento penitenziario e, soprattutto, aprì in Italia il filone dell’esecuzione penale esterna, che Franco Bricola ebbe a definire “il fiore all’occhiello della riforma”.

Le rivolte avvenute giorni addietro non possono essere giustificate, ma è necessario comprenderne la causa che risiede in un insieme di circostanze: l’improvvisa interruzione dei colloqui con i familiari, dei permessi premio, del lavoro all’esterno e delle ridotte attività quali scuola e lavoro a causa del pericolo contagio; la successiva legittima paura di un contagio di massa; il timore, per non dire certezza, di essere abbandonati tra le mura del carcere al proprio destino. Tuttavia, questi fattori sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso ormai colmo del dramma del sovraffollamento degli istituti di pena, in cui la vita scorre lenta e senza alcuna reale prospettiva di recupero sociale del reo.

Dinanzi a questo scenario non sono mancate le dichiarazioni tese ad affermare la logica repressiva quale unica soluzione al problema. Come se tutto potesse risolversi chiudendo la popolazione detenuta a doppia mandata e lasciarla, così, a marcire in attesa dell’arrivo del virus. Una versione postmoderna e ben peggiore del lazzaretto di manzoniana memoria.

Un ragionamento che fa acqua da tutte le parti e non tiene affatto conto che, insieme ai detenuti, non si dovrebbe consentire l’uscita anche a quelle migliaia di operatori del sistema giustizia, che lavorano ogni giorno negli istituti di pena. Insomma, se fosse così, sarebbe uno Stato profondamente ingiusto, pronto a sacrificare  sempre e comunque i più deboli.

Fortunatamente non è così. Si sono prontamente mobilitati i magistrati di sorveglianza i quali, sia a titolo personale che come Coordinamento nazionale[2], hanno segnalato il pericolo della diffusione del virus nell’universo concentrazionario, i rischi del contagio sull’intero sistema nazionale e, quindi, la necessità di riportare le strutture penitenziarie entro i limiti della propria capienza regolamentare attraverso il maggiore utilizzo delle misure alternative alla detenzione.

Parimenti hanno fatto gli avvocati che, come UCPI, sin da subito hanno dato una lettura che va all’origine del problema, il sovraffollamento per l’appunto, ed indicato soluzioni ragionevoli, quali il maggior uso delle misure alternative, ed anche coraggiose quali il ricorso ai provvedimenti clemenziali collettivi, l’amnistia e l’indulto.

La rivolta per ora è passata ma, notizia di qualche giorno addietro, iniziano ad esserci contagi anche nelle carceri, dieci casi sparsi dal nord[3] (San Vittore, Pavia e Voghera) al sud [4](Lecce) della penisola.

Il governo nel recente decreto legge, ribattezato “Cura Italia”, ha dedicato solo due articoli, 123 e 124, alla vicenda, accogliendo solo in  minima parte le proposte provenienti dalla magistratura, dall’avvocatura e dalle associazioni (Antigone, Yairaiha Onlus etc.) che da sempre si occupano delle problematiche legate alla detenzione. In sostanza, si dispone che nei casi di soggetti con pena o residuo di pena non superiore ai diciotto mesi è possibile godere della misura della detenzione domiciliare attraverso un iter semplificato, specificando, tuttavia, che laddove la pena sia superiore a sei mesi la detenzione domiciliare avrà luogo con le modalità del c.d. braccialetto elettronico . La logica è chiaramente quella di favorire la fuoriuscita rapida dagli istituti di coloro i quali, comunque, avrebbero potuto godere di detto beneficio ma in tempi più rapidi, in modo da poter così fronteggiare un eventuale emergenza sanitaria negli istituti di pena. Altra misura, avente medesima finalità, è la previsione di un’estensione, anche in deroga ai limiti massimi,  delle licenze premio ai semiliberi sino al 30 giugno 2020.

Del resto, se il virus si trasmette per rapporti ravvicinati, l’esistenza di carceri sovraffollati in cui non possono essere rispettate le distanze di sicurezza è ovviamente una bomba epidemiologica che, quando esploderà, travolgerà anche coloro i quali si trovano al di là delle mura.

Le misure prese dal governo, in vero, sono poca cosa. Si calcola che coloro i quali ne potranno usufruire non saranno più di seimila, ciò solo nel caso in cui verranno recuperati i migliaia di braccialetti elettronici che, fino a qualche giorno addietro scarseggiavano al punto tale che la magistratura, di frequente, evitava di disporre la misura dei domiciliari con il dispositivo elettronico, vista la cronica assenza dello stesso.

Nonostante la pochezza di quanto disposto, che, peraltro, non sarà applicato ai c.d. ostativi, agli autori di maltrattamenti in famiglia e di stalking ed ai detenuti sanzionati disciplinarmente perché coinvolti nella rivolta dei giorni passati, qualcuno ha avuto l’ardire di dire che ci troviamo dinanzi ad un indulto e si fa così un regalo ai rivoltosi.

In vero, quanto disposto nel decreto c.d. Cura Italia non sarà sufficiente e sarà necessario verosimilmente ampliare ed implementare l’utilizzo degli strumenti dell’esecuzione penale esterna al fine di riportare la popolazione detenuta ad numero ragionevole e proporzionato con le dimensioni degli istituti e, così, riuscire ad affrontare efficacemente una eventuale emergenza sanitaria anche nel mondo penitenziario.

Può darsi che questi recenti avvenimenti possano essere, come scriveva Terzani, una buona occasione per mettere da parte i fomentatori di odio e di paura e, così, comprendere le ragioni dell’altro che vive la propria vita in reclusione attendendo il fine pena, laddove questo è previsto, o rassegnato nell’attesa di un fine pena mai, nel caso dei c.d. ergastolani ostativi.

Per comprendere le ragioni dell’altro è necessario avere chiaro quale sia il finalismo della pena, alla luce della nostra ingegneria costituzionale. E’ necessario ricordare che coloro i quali parlano di “buttare le chiavi” e “fare marcire” sono, in realtà, intenti alla captazione del consenso elettorale, proponendo una visione punitiva in aperto contrasto con la Costituzione, in cui all’art. 27 si sancisce espressamente il finalismo rieducativo della pena. Allora, se il vincolo teleologico risocializzante deve orientare la pena ed il sistema penale nel suo complesso, come chiaramente sentenziato anche dalla Corte Costituzionale con la sent. n. 313/ 1990, anche parlare di amnistia ed indulto non è affatto “fare un regalo”.

In un sistema che soffre da più di una decade per la drammatica realtà del sovraffollamento carcerario, che oggi vive il pericolo della diffusione del Covid-19, parlare dei provvedimenti di clemenza collettiva è doveroso.

Oggi riscoprirli non ha il significato di perdonare il reo e, così, violare i diritti della eventuale vittima, ma rappresenterebbe l’utilizzo di strumenti eccezionali in una situazione oggettivamente eccezionale. Si tratterebbe di una clemenza per ragioni di giustizia, da un lato  tesa ad evitare gli effetti di una desocializzazione conseguente alla drammatica realtà del sovraffollamento carcerario[5] e dall’altro a riequilibrare gli effetti di un uso eccessivo del diritto penale, sempre meno extrema ratio e sempre più strumento di propaganda elettorale.

  Orlando Sapia,  avvocato e Responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro

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