di ANTONINO MERLINO*
L’idea di fissare una data che celebrasse il lavoro e i lavoratori nacque a Parigi nel 1889, durante il congresso della Seconda Internazionale. Si scelse il 1° maggio perché tre anni prima, nel 1896, una manifestazione di operai, che avevano aderito allo sciopero generale indetto negli Stati Uniti per chiedere la riduzione della giornata lavorativa a 8 ore, a Chicago era stata repressa nel sangue. A quei tempi i lavoratori non avevano diritti. Erano costretti a lavorare anche 16 ore al giorno, in condizioni pessime, tanto che non di rado morivano sul luogo di lavoro.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma quanta ancora ne dovrà passare prima che ad ogni lavoratore vengano riconosciuti tutti i suoi diritti? E non c’è bisogno di posare il nostro sguardo sui Paesi in via di sviluppo per osservare l’intollerabile sfruttamento di esseri umani, che viene perpetrato con scientifica malvagità, ci basta non voltarci dall’altra parte, come, ahimè, troppe volte facciamo, per renderci di conto di quanta ingiustizia si nutre il nostro benessere.
Gli sfruttatori si annidano in tutti i settori produttivi, ma per il ruolo che ricopro, preferisco soffermarmi sul comparto agricolo, cercando di evidenziare alcuni aspetti inaccettabili di un sistema che va radicalmente ripensato e costretto a rientrare completamente nei binari della legalità oltre che della moralità.
Secondo quanto denuncia Oxfam nel rapporto “Maturi per il cambiamento”, uno studio che prende in considerazione alcuni supermercati statunitensi ed europei, il 50% del prezzo va al supermercato, il 45% tra l’azienda che produce il bene e chi si occupa di trasporto e consegna e soltanto un misero 5% ai lavoratori, che vengono dunque pagati pochissimo.
In Italia, lo sfruttamento dei braccianti e dei coltivatori diretti è una realtà che riguarda uomini e donne, ma penalizza soprattutto quest’ultime che come denuncia La Repubblica, riportando le parole di una lavoratrice italiana: “Controllano quante volte andiamo al bagno e ci dicono di tornare subito al lavoro. Se ti rifiuti di lavorare la domenica minacciano di non chiamarti più”.
Lo sfruttamento riguarda lavoratori immigrati e italiani. Gli irregolari nel settore agricolo, le cosiddette vittime del caporalato, sono un esercito di migliaia di persone che lavora, anche 12 ore al giorno, per una paga giornaliera che non supera la metà di quella prevista dal Contratto nazionale di categoria.
Si è cercato di porre rimedio con Legge 199 del 2016, fortemente voluta dalle organizzazioni sindacali per combattere la piaga del caporalato e del lavoro irregolare. Una buona legge, purtroppo, rimasta largamente inapplicata, non tanto negli aspetti repressivi, quanto in quelli preventivi e incentivanti per le imprese sane, al fine di stimolarne sempre di più percorsi virtuosi, di rispetto delle regole, isolando e penalizzando le aziende irregolari.
Il 20 febbraio 2020 è stato approvato il Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato (2020-2022), che è articolato in quattro assi strategici: a) prevenzione; b) vigilanza e contrasto; c) protezione e assistenza; d) reintegrazione socio-lavorativa dei lavoratori sfruttati. Il Piano è frutto del Tavolo di lavoro predisposto appositamente a fine 2018, presieduto dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, che ha visto la partecipazione di istituzioni, associazioni di categoria, sindacati e Terzo settore, oltre che dell’I.L.O. (International Labour Organization). Speriamo che trovi piena attuazione, che non faccia anch’esso come tante buone leggi la fine delle grida di manzoniana memoria. Lo si deve ai tanti braccianti agricoli del nostro Paese e, soprattutto, della nostra regione, che lo tsunami coronavirus ha reso ancora più fragili di quanto già non lo erano, in un territorio, dove il tasso di disoccupazione generale supera il 20% e quello giovanile si colloca abbondantemente sopra il 50%.
Il sostegno agli agricoltori in difficoltà con un’indennità di solidarietà di 600 euro previsto da governo Conte, con il decreto Cura Italia, è una boccata d’ossigeno che aiuta, ma non risolve i problemi di fondo di una categoria di lavoratori che rischia di scivolare velocemente verso la povertà. A causa della pandemia è diminuita la produzione di tutte le imprese agricole, molte delle quali, speculando sul bisogno di padri e madri di famiglia, costretti dalla necessità di portare un pezzo di pane ai propri figli, sono tentate di trasformarli in manodopera a basso costo e senza diritti. Lo Stato deve porre argine a questo rischio, garantendo un contributo finanziario, almeno fino a dicembre, a tutti i braccianti iscritti come tali negli elenchi del Centro per l’impiego e garantire loro a livello contributivo e di indennità di disoccupazione le stesse giornate lavorate nell’anno 2019 anche nel 2020 e vigilare sulla regolarità delle assunzioni da parte di quelle aziende che, in varie parti d’Italia, lamentano carenza di manodopera.
La manodopera c’è, basta cercarla. Il numero degli invisibili, soprattutto dopo il Decreto Sicurezza, è enorme. Basti pensare ai tanti ghetti, come quello di Rosarno, sparsi per l’Italia. Ecco perché, mai come in questo momento un provvedimento di emersione dall’irregolarità, anche attraverso permessi di soggiorno provvisori, per velocizzare i tempi di rilascio, in attesa dell’effettiva regolarizzazione, potrebbe configurarsi come un forte vantaggio economico e sociale per tutta la collettività, oltre che come un atto di giustizia ed equità, e al contempo una misura di tutela della salute e dell’igiene pubblica, in grado di ridurre il rischio di esposizione al contagio per questi lavoratori e per gli altri cittadini. Senza contare che l’emersione di queste persone dall’economia sommersa garantirebbe il loro accesso al sistema delle tutele, agli ammortizzatori sociali e l’iscrizione al Sistema Sanitario Nazionale, e costituirebbe una misura concreta di contrasto all'illegalità perché prosciugherebbe il bacino di manodopera a cui si rivolge la malavita organizzata.
Del resto Papa Francesco afferma: «È certamente condivisibile la necessità di venire incontro a quanti, privati di dignità, avvertono in modo più acuto le conseguenze di un’integrazione non realizzata, venendo ora maggiormente esposti ai pericoli della pandemia. È dunque auspicabile che le loro situazioni escano dal sommerso e vengano regolarizzate, affinché siano riconosciuti ad ogni lavoratore diritti e doveri, sia contrastata l’illegalità e siano prevenute la piaga del caporalato e l’insorgere di conflitti tra persone disagiate».
Dunque, sì al lavoro regolare, non al lavoro nero e alla liberazione dei voucher in agricoltura, che invece di regolarizzare il lavoro sommerso, finiscono per rendere sommerso il lavoro regolare.
Il lavoro degno è necessario all’uomo per potersi realizzare. In fondo, è il lavoro che facciamo che dice chi siamo. Buon 1° maggio a tutti i lavoratori e alle lavoratrici.
* segretario generale UILA-UIL Calabria
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