di DOMENICO BILOTTI
Chi scrive è convinto che il voto sia il sale della democrazia: è il momento in cui, secondo la tradizione contrattualista, il “corpo elettorale” si fa determinazione e scelta degli indirizzi della politica. Proprio per questo, il voto è esigente: non può bastargli che esista un ufficio dove con un timbro si marca una scheda. Tutt’altro il voto: è la libertà piena di tutto ciò che lo precede. Altrimenti, libere elezioni e prive di macchia dovremmo chiamare quelle di una Kabul militarizzata, di una Crimea scippata, di una Mosca mai così nazionalista, nell’articolazione di tutti e tre i suoi partiti principali (anche formalmente di opposizione), di una Washington alle prese con una gigantesca questione sociale e informativa, di una Pechino dove per paradosso libertà si chiama l’esistenza di un partito solo.
L’Italia arriva al voto stremata e confusa. La nostra tesi di partenza è che l’opinione pubblica elettorale e l’opinione pubblica sociale non coincidono: si rispecchiano, si assomigliano, ma sono matrioske non del tutto identiche e la loro unica differenza non è la stazza della matrioska più grande che le contiene. Al voto si va in pochissimi. Si ritiene peculiarmente partecipata, ormai, una contesa elettorale dove votano tre aventi diritto su quattro, molto spesso è poco meno della metà: uno zero virgola nove ogni due. L’opinione pubblica sociale è purtroppo la violenza espressionista dell’opinione pubblica elettorale. Laddove questa, ad esempio, organizza liste, partiti, firma accordi, partecipa a manifestazioni di cui comunica l’indizione, la seconda è spesso ricacciata dal fluire della vita nelle estreme difficoltà materiali e nel tormentante sfogatoio di una realtà virtuale che ha il sembiante consolatorio rispetto a un esistente al quale si appartiene per costrizione e indifferenza.
Lo abbiamo visto con la guerra e con i vaccini. Gli italiani, tendenzialmente in tutte le estrazioni politiche scarsamente legati agli obblighi internazionali e ancor meno all’idea di una militarizzazione come sacrificio e compressione di spazi propri e altrui, si trovano un fronte digitale in cui dietro ogni guerra c’è lo zampino di una eminenza grigia non direttamente belligerante. Chissà se anche i cadaveri sul campo sono costituiti di questa stessa immaterialità. E si è diventati, però, con lo schermo di un complotto “altrove” sempre più esperti di tutto, avidi e rumorosi custodi di verità preconfezionate che chissà come non sono dette però evidentemente tutti sanno e di cui tutti forbiti e sgrammaticati discettiamo.
Lo avevamo visto coi vaccini: non una parola sulla loro tenuta nel preservare da forme gravi di malattia; un profluvio di ricostruzioni ardite sulla loro composizione e commercializzazione, e critiche materiali e concrete al guazzabuglio della normativa antipandemica pressoché non pervenute, se non per essere triturate e sminuzzate al bivio di qualche slogan: perché il conflitto sociale è stato svenduto dalla politica alla cronaca e dalla cronaca al pettegolezzo.
Lo vediamo quando succedono fenomeni di violenza e l’obbligo del commento sembra un imperativo categorico kantiano che rimuove però ogni analisi di contesto e ogni proposta di soluzione che non sia un verdetto finale, da far durare appunto il tempo di un commento (e qualche volta di una sberla o di un linciaggio, pazienza per le vite che vi soggiacciono).
Andiamo a votare una classe politica di rara mediocrità morale e non certo per istanze palingenetiche che si inseguono da sempre nelle campagne elettorali italiane (si siano chiamate Di Pietro, Grillo, Uomo Qualunque o chissà che altro: la minaccia comunista, la minaccia fascista, e così via). Sarà un parlamento corto – seicento membri – e una pletora di liste nate dallo smembramento e dalla ricomposizione di quelle esistenti. La legge elettorale è pessima: non c’è però solo uno che abbia portato alle camere, in un parlamento libero dalla pressione nei vincoli di maggioranza, visto che la maggioranza era enorme e la minoranza almeno nei titoli agguerrita e un pochino distratta e assente in aula, una proposta migliore. Tutti vogliono salire, ma il padrone della festa ha tolto molte sedie e quelle che rimangono perciò valgono di più.
Una maggioranza è all’orizzonte, apparentemente delineata nella sola coalizione della destra, ma questa unità è più fittizia di quel che appaia, perché leggendo i programmi è una strana commistione dei vecchi mantra della destra sociale (pena, Stato, qua e là demografia) e degli altrettanto noti slogan della destra liberale (meno fisco e meno solidarietà e meno autonomie diffuse e visione gerarchica delle libertà civili, ma a dire “A” si fa presto, è a dire come che diventa un pretesto). Quella destra, come qualsiasi sinistra, inevitabilmente farà agenda “Draghi”. Perché si badi: non esiste alcuna agenda Draghi, se si ritiene essa una piattaforma di obiettivi concreti che convergono su un’idea di Paese e di comunità. Quella agenda, purtroppo o per fortuna (e chi scrive non certo ne è acritico corifeo), è la risultante di una cornice di obblighi internazionali ai quali siamo vincolati per l’ottenimento di risorse senza le quali affoghiamo. Guerre, pandemie e siccità – come ogni altra forma di attacco alle materie prime – dimostrano che esiste un pianeta al quale apparteniamo e che invero non sembra appartenerci.
Sarebbero sfide da far tremare i polsi, da mettere sul quaderno la lista delle cose da fare e non la lista della spesa, da vedere in cosa i timori e le difficoltà dell’opinione pubblica sociale siano inevitabilmente assai più gravi degli zuccherini lanciati all’opinione pubblica elettorale. Questa campagna, tuttavia, ci pare che quel fossato finirà per aggravare. Sotto il ponte levatoio, si sente già un maleodorante afrore.
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