di FRANCO CIMINO
Il primo maggio é arrivato, puntuale come un treno della vecchia ferrovia, quindi anche in ritardo. La puntualità è nel calendario che segna il suo tempo con una precisione fuori dal tempo reale. Che è quello delle persone. Della vita della gente. Delle promesse che la società fa a se stessa e ai suoi componenti. Il ritardo è portato da questa stagione drammatica, in cui la sospensione proprio del tempo della vita ha giocato con tutti i fattori che la nutrono. Oggi, quello più importante si rappresenta in questa data “ storica”.
Il Primo Maggio è la festa del lavoro. Quel lavoro che la Costituzione pone a fondamento della Repubblica, che non solo per la mediazione tra cattolici e comunisti ha voluto anteporre, senza nulla togliere loro, a lavoratori. Anche se una certa, ormai quasi dimenticata, agiografia comunista l’ha sempre festeggiato come festa dei lavoratori, questo giorno è diventato per intero quello del lavoro. E, pertanto, richiama l’attenzione responsabile di tutti. Il nostro Paese vive un paradosso, che accentua la sua difficoltà odierna. Esso scorre lungo quella settima che unisce, nello spirito della Costituzione, due valori fondamentali, la libertà e il lavoro, appunto. Quel paradosso vuole che il Venticinque Aprile sia giunto con le libertà sospese e il sofferto anelito degli italiani a riconquistarle nella tranquillità di cui la libertà si fa obbligo di assicurare. Oggi, il Primo Maggio si presenza senza il lavoro e senza lavoratori. Questi ultimi vivono una doppia condizione di frustrazione. Una condizione quasi umiliante: non sono nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro, perché in cassa integrazione o licenziati o senza lavoro; non possono scendere in piazza per far valere la loro esistenza e la loro parola di protesta e proposta.
La questione che si pone, allora, è posticipata. Rinviata di soli tre giorni. Il quattro maggio l’Italia inizia a ripartire, aprendo in tempi differenziati cancelli, saracinesche e porte. Sono le quelli dei luoghi di lavoro. E sono le aperture al lavoro. Sono necessarie. Gli esperti modificano questa parola in possibili. Aperture possibili, per indicare che molte attività non riapriranno ed altre potrebbero chiudere presto. Si calcola che circa un milione di lavoratori distribuiti nei vari comparti non ritroverà il posto da cui il Coronavirus li aveva allontanati. Il numero sarà più alto quando la crisi, divenuta nel frattempo strutturale, né espellerà molti altri ancora. La prima questione, quindi, è come difendere i posti di lavoro, almeno fino al numero massimo consentito dalla volontà politica e dalla generosità dei datori di lavoro, oltre che dalla difficile congiuntura. Molto dipenderà anche dalle risposte che attendiamo dall’Europa. Una seconda questione, deriverà dalle modificazioni intervenute in queste settimane sulla organizzazione del lavoro causata dall’emergenza sanitaria, che ha spostato il lavoro dal luogo tradizionale alla casa. La chiamano con il solito fastidioso inglesismo “Smart Working, che letteralmente significa lavoro intelligente o flessibile, o più comunemente “ lavoro da casa”. Centinaia di migliaia di lavoratori hanno operato dentro le proprie abitazioni, accanto a congiunti e figli. Addirittura, anche gli insegnanti, attraverso quell’altra invenzione della “ didattica a distanza” o come in tanti altri modi, pure in inglese, si dice. Gli studiosi di queste dinamiche dicono che il tutto abbia funzionato molto bene, specialmente per banche e uffici pubblici. Questa emergenza può trasformarsi in convenienza? Questa momentaneità in stabilità? E nel caso affermativo, a chi conviene, al lavoratore o al datore di lavoro? E di più, conviene al lavoro? E qui si inserisce la terza questione, forse quella più importante, perché, nata prima del Coronavirus, è stata lungamente disattesa, aggravandosi pesantemente. Si chiama qualità del lavoro, da cui discende la dignità del lavoratore.
Da tempo, per la radicale trasformazione del sistema di produzione, conseguente in parte allo sviluppo della tecnologia e in parte alla globalizzazione, la qualità del lavoro si è molto indebolita e, con essa, assai di più, la dignità di chi presta la propria opera. In tutti i campi si è affermata quella profezia marxiana( il filosofo che più di tutti ha sbagliato indovinando molte volte) lanciata sul capitalismo come una maledizione, nella quale si documenta che chi ha in mano il potere della produzione tende sempre più a sfruttare, per mere avidità di guadagno, il lavoratore, degradando sempre più la sua funzione e il suo “ potere” nei confronti di ciò che “crea”. Ripeto crea, perché nel lavoro ciò che dà valore alla attiva umana è il legame tra soggetto, che agisce sulla materia, e l’oggetto, che da quelle mani e da quella mente nasce. Separandolo dalla ricchezza complessivamente intesa e inserendolo nella moderna catena di montaggio, costituita dalla feroce applicazione della sempre più avanzata tecnologia, il sistema che governa i meccanismi della produzione e la gestione del lavoro, trasforma il lavoratore in una rotella del vecchio ingranaggio di tayleiriana memoria.
Pur prescindendo dall’antico assunto dei corsi e dei ricorsi storici, che in verità non mi ha mai appassionato, l’attualità si presenta a volte con qualcosa di già visto nella storia. La più ricorrente è l’uso che di ogni crisi ne fa lo stabile assetto di potere per sfruttarla al meglio. La tecnica è sempre la stessa. La crisi economica aumenta la povertà e la disoccupazione, questa l’esercito dei senza lavoro, quest’ultimo, allungatosi sul precedente, accresce enormemente il bisogno estremo di trovare una qualsiasi cosa da fare per qualcuno che la monetizzi. L’asimmetria che si forma tra ristrettezza dell’offerta e la vastità della domanda, fa scendere la qualità del lavoro e il “ prezzo” di chi si offre a farlo. Tradotto in parole-immagini, “ se vuoi lavorare, queste sono le condizioni”. Portato su immagini senza parole, troviamo, ben nascosti, nuove forme di lavoro e nuove applicazioni, che ancora la stessa economia non riesce a chiamare con un nome che possa attenuarne il carico di frustrazione e sfruttamento dei prestatori d’opera. Sono quelli del call center, dei lavoratori stagionali nei campi. Sono quelli delle grandi distribuzione e dei centri commerciali. Sono quelli dei contratti a termine, i trimestrali, soprattutto, e delle partite Iva. Come loro, altre figure che non sto qui ad elencare. Sono uomini e donne invisibili, trattati come merce sul mercato. Neppure più come forza lavoro. Solo merce accanto a una merce altrettanto invisibile, cioè la cosa ancor più invisibili prodotta della fatica che verrà.
Per fare questi lavori non occorre una qualificazione culturale e una competenza specifica. La selezione non avviene per merito, ma solo per capacità di sopportare la crescente fatica e la disponibilità ad accettare supinamente il lungo orario di lavoro, i luoghi inadatti in cui si svolge e la paga incongrua. Le lauree e l’intelligenza, la preparazione vasta, non servono proprio. Sono richieste solo perché in quell’esercito si può scegliere il meglio. Non sempre sono previsti passaggi di posizione interna( una volta si chiamava carriera) e quando questi avvengono non corrispondono sempre al proporzionale aumento dello “ paga”. Siamo passati dalla prima forma di economia, quella del baratto, a questa nuova e moderna, quella del ricatto. Ricordo sempre, come se l’avessi stampato nella mente, un vecchio canto popolare del Salento, recuperato e portato a conoscenza dal grande cantastorie Matteo Salvatore, scomparso or sono molti anni, nella sua Puglia. Su una melodia dolce e dolente dice testualmente:” padrone mio ti voglio arricchire, com nu chene i veng a fatjha ( come un cane io vengo a lavorare). L’economia del prendere o lasciare, rigenera una delle più grandi questioni morali della storia umana, la distanza sempre più crescente del lavoro, quale forza della creatività e della gratificazione piena dell’essere umano, dall’uomo che lo svolge. E genera anche i due fenomeni conseguenti: lo scadimento della qualità del lavoro e l’imprigionamento in esso del lavoratore, che perde la sua dignità umana.
Infine, il terzo, quello più carico di drammaticità, la fine del lavoro come mezzo per l’edificazione della Città dell’uomo e strumento per costruire la ricchezza bella. Quella che unisce l’aspetto materiale alla spiritualità, facendo dell’uomo l’essere vivente più completo. La ricchezza bella è quella che assegna le giuste sue parti a chi il lavoro complessivamente e unitariamente crea, l’imprenditore e il lavoratore. Si chiama, questo, giustizia ed eguaglianza nel diverso riconoscimento dei meriti e dei bisogni, della quantità e delle capacità, della forza fisica e di quella intellettuale. Si chiama anche spirito della democrazia ed etica della responsabilità, ciascuno potendo concorrere alla realizzazione della ricchezza del proprio Paese. Questo primo maggio senza lavoro e senza piazza, non può passare com’è passato il Venticinque Aprile, che l’ha preceduto. Deve essere un giorno di riflessione intorno alle questione poste, di presa di coscienza che questa economia, chiamata come dir si voglia, non può più essere accettata e di più le condizioni di ingiustizia e divisione tra gli uomini che essa crea. Deve essere un giorno in cui forze politiche e governo, enti locali e regioni, sindacati e imprenditori, istituzioni le più diverse, università in primis, mondo della cultura e la stessa chiesa di Francesco, mettano al centro della dibattito e dei loro interessi la questione del lavoro e l’aspirazione a cambiare in senso più democratico la società. Campeggia nel cielo di Roma, capitale del mondo, quella frase del Papa in cui è detto, con sommessa fermezza, che da questa crisi da pandemia o si esce tutti insieme o non si uscirà.
Mi piacerebbe si aggiungesse che dalla crisi economica e dalla povertà della sua struttura non si uscirà senza aver creato il lavoro nuovo, una nuova qualità del lavoro. Un lavoro per l’uomo. Un lavoro per tutti. Bello e creativo. Giusto nella fatica e nella retribuzione.
Testata giornalistica registrata presso il tribunale di Catanzaro n. 4 del Registro Stampa del 05/07/2019.
Direttore responsabile: Enzo Cosentino. Direttore editoriale: Stefania Papaleo.
Redazione centrale: Via Cardatori, 9 88100 Catanzaro (CZ).
LaNuovaCalabria | P.Iva 03698240797
Service Provider Aruba S.p.a.
Contattaci: redazione@lanuovacalabria.it
Tel. 0961 873736