di RITA TULELLI
Non è una ribellione plateale, né una protesta organizzata. È un atteggiamento sottile, quasi invisibile, ma molto diffuso tra i giovani: si chiama quiet quitting, ovvero “abbandono silenzioso”.
Nato negli ambienti lavorativi statunitensi post-pandemia, questo termine ha rapidamente varcato i confini degli uffici per entrare anche nei corridoi delle scuole e nei lavoretti tipici degli adolescenti. Ma cosa significa esattamente? Il quiet quitting non è licenziarsi, né marinare la scuola. È piuttosto un atteggiamento di distacco: fare solo lo stretto necessario, rispettare i limiti minimi richiesti, senza slancio, senza entusiasmo, e soprattutto senza mettere energie extra in qualcosa che non sembra restituire un senso.
Nelle aule scolastiche, il fenomeno si traduce in una disaffezione crescente. Sempre più studenti dicono “no” ai compiti extra, evitano le interrogazioni volontarie e partecipano alle lezioni con il minimo coinvolgimento possibile. Non è svogliatezza pura: è una forma di autodifesa, spiegano alcuni ragazzi, contro un sistema che sentono distante, rigido e poco gratificante. Anche nei lavoretti — dai bar alle consegne, dai fast food ai centri estivi — il quiet quitting è sempre più visibile. I giovani lavoratori non sono più disposti a sorridere per forza, a fare straordinari non pagati o a coprire mansioni extra “per spirito di squadra”.
Francesco, 20 anni, lavora come cameriere nei weekend: “Prima cercavo sempre di farmi notare, sperando in un contratto migliore. Ora so che, spesso, non arriva nulla in cambio. Faccio il mio dovere, ma non mi faccio sfruttare”. Sociologi ed educatori invitano a non liquidare il fenomeno come pigrizia o menefreghismo. “Il quiet quitting nasce da una crescente consapevolezza tra i giovani: il tempo è prezioso, e la fatica non è più un valore in sé se non c’è riconoscimento, equità o benessere psicologico” È anche una risposta alla pressione costante di dover “eccellere”, essere sempre performanti, multitasking, brillanti.
Dopo una pandemia che ha stravolto le abitudini e amplificato il disagio psicologico, molti giovani scelgono di proteggersi mettendo dei confini. La sfida, ora, è capire come rispondere a questo fenomeno. La scuola può tornare a essere un luogo di senso e non solo di doveri? I datori di lavoro possono imparare a motivare, ascoltare, coinvolgere anche i più giovani? Ignorare o condannare il quiet quitting rischia solo di allargare il solco. Forse è tempo, invece, di chiedersi perché tanti ragazzi sentano il bisogno di “tirare indietro” e cosa possiamo fare, noi adulti, per restituire loro la voglia di mettersi in gioco.
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