di CLAUDIA FISCILETTI
Durante la guerra non ci sono mai vittime di serie A e di serie B. Vengono colpiti tutti indistintamente come a sottolineare quanto sia fragile la vita umana e, proprio per questo, la si dovrebbe considerare più preziosa di qualsiasi altra cosa. Vittime tra donne, bambini, anziani e uomini civili, vittime trasversali come i reporter di guerra, medici e chiunque altro svolga un mestiere che lo porti a mettere piede nel vivo della battaglia. Ieri sera, durante la trasmissione di RaiTre "Che tempo che fa", il giornalista Michele Serra ha ricordato i reporter di guerra, italiani e non, che hanno perso la vita mentre svolgevano il loro mestiere: informare e riportare quello che succede nelle zone colpite dai conflitti. (CLICCA QUI PER VEDERE IL VIDEO)
Li ha ricordati tutti, slegandosi da qualsiasi ragionamento filo russo o filo ucraino, e La Nuova Calabria non può che unirsi al ricordo dei colleghi che erano consapevoli dei rischi della propria professione e che, nonostante questo, hanno risposto al richiamo del diritto d'informazione. Come sottolinea Serra: "Niente può sostituire la presenza fisica, niente è più credibile e più vero di una testimonianza diretta [...]. Il nostro corpo è fragile, basta la scheggia di una bomba per metterlo a tacere per sempre".
Questo lo sapeva Ilaria Alpi, assassinata con il cineoperatore Miran Hrovatin a Mogadiscio il 20 marzo 1994, dove lavorava come inviata del TG3 seguendo la missione di pace Restore Hope, coordinata e promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991. Lo sapeva Alexandra Kurchinova, 24 anni, reporter ucraina morta una settimana fa sotto il fuoco russo. Lo sapeva il fotografo Andrea Rocchelli, 31 anni, morto nel 2014 colpito da una granata dell'esercito ucraino nel Donbass.
Serra lancia una stoccata, senza retorica, a chi fa l'esperto di guerra e geopolitica dietro lo schermo di un computer: "Una sola parola detta con i piedi in mezzo alle macerie, respirando quella polvere, parlando con quei uomini e quelle donne, una sola immagine scattata lì dove tutto è in bilico, vale più di un milione di parole che intasano i social. Il luogo dove tutti sanno tutto del mondo, anche se non ci sono mai stati".
E, ancora, Serra ricorda che "quasi tutto quello che conosciamo di questa guerra, al netto della propaganda e al riparo della pioggia acida delle fake news, ci arriva dal racconto diretto delle persone che sono lì. I giornalisti, i fotografi, i cameraman quelli bravi e quelli meno bravi. Quelli che guadagnano buoni stipendi, e sono pochi, e i precari che magari si sono anche pagati il biglietto del viaggio".
Un mestiere, quello del reporter di guerra, che in quanto tale comporta rischi e lodi, comporta gavetta ed esperienza sul campo, comporta l'istinto di capire come e quando trovarsi nel posto giusto al momento giusto, come tutti gli altri mestieri, ma che spesso si perde e si svaluta nel chiacchiericcio dei sapienti da tastiera, di quelli che devono dire per forza qualcosa, come se temessero che a rimanere in silenzio farebbero brutta figura. E, in proposito, Serra conclude: "Gli strateghi e gli opinionisti da tastiera, me compreso, quelli che a milioni nel mondo spiegano tutto e il contrario di tutto, dovrebbero osservare non un minuto ma un giorno di silenzio in onore dei reporter morti in guerra. Bisognerebbe che i social ammutolissero almeno per un giorno in memoria di Aleksandra, di Andrea, di Ilaria e di tutti gli altri".
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