di MARCELLO FURRIOLO
C’è una Calabria diversa, che può essere protagonista anche di un cinema diverso, in cui il territorio si identifica con le storie e con i personaggi che rappresentano.
“Regina” è il titolo dell’opera prima di Alessandro Grande, il giovane regista calabrese di Catanzaro, che concorre ai Nastri d’Argento e che in questi giorni, con la riapertura dei cinema, viene presentato nelle sale italiane.
Il film, con due bravissimi interpreti come Francesco Montanari e la giovane e promettente Ginevra Francesconi, ha già incontrato i favori della critica nazionale, per la forte tensione che caratterizza la storia e per la buona costruzione dell’intreccio, che si sviluppa in uno con la drammaticità dei luoghi.
Il lungometraggio è interamente girato in Calabria, sul Lago Arvo, nei boschi e nei paesini silani, Aprigliano, San Giovanni in Fiore, Cotronei, in una stagione fredda e piovosa. Luoghi e clima che da subito appaiono come elementi caratterizzanti dell’animo dei protagonisti, un padre e una figlia, alla ricerca di una rapporto umano e familiare e che un tragico incidente, sulle gelide acque del lago, trasformerà in un tormentato e sofferto percorso di crescita e di rigenerazione, tra sensi di colpa e responsabilità. Il racconto si snoda in un susseguirsi ansiogeno di piani sequenza in cui il paesaggio tetro e grigio avvolge i personaggi in un alone gelido e in un’atmosfera angosciante.
E’ una Calabria assolutamente diversa dagli stereotipi rappresentati nella cinematografia, nella comunicazione televisiva e, per certi versi, dalla letteratura. Non è la Calabria colorata, da cartolina, celi e mare azzurri, sole battente su una natura rigogliosa e benigna. Tanto per intenderci la Calabria falsa e mistificante di Gabriele Muccino. La Calabria di Alessandro Grande è la Calabria di una quotidianità grigia e ordinaria, come grigie e ordinarie scorrono le giornate nei paesini interni, aggrappati sulle alture silane e dove possono svilupparsi vicende umane e familiari come quelle di Regina e di Luigi.
Il film ha ovviamente delle pause di linguaggio e nelle peripezie angoscianti di Regina, a volte, deve ricorrere a trovate poco credibili, ma nel complesso riesce a coinvolgere lo spettatore nella vicenda dei due protagonisti aggrappati disperatamente ad un filo gelido, destinato a spezzarsi ad ogni istante e che padre e figlia, ritrovandosi per vie parallele, decidono di ricostruire in un processo doloroso verso la verità e la giustizia.
Forte merito e coraggio di Alessandro Grande è quello di rinunciare alla rappresentazione oleografica di questo territorio, ma di inserirlo integralmente nella storia per disegnarne la drammaticità della vicenda e l’evoluzione angosciante della psicologia dei protagonisti. Il lago grigio e arcano trasmette allo spettatore la sensazione gelida che attraversa il corpo adolescente di Regina, mentre il paesaggio silano e i vicoli tristi del paese ben disegnano le angosce indefinite dell’animo tormentato della figura paterna, nevroticamente abbozzata da Francesco Montanari.
E‘ la conferma che la Calabria, con le sue asprezze, le sue contraddizioni, con le sue unicità paesaggistiche e ambientali, deve diventare un grande e, forse ineguagliabile, set per l’industria cinematografica e televisiva, rifuggendo dalla tentazione di inseguire gli spot stereotipati, che oltre a rappresentare un’ immagine falsa della regione, finiscono per creare aspettative inattuali, molto spesso deluse. La grandezza della Calabria è nei suoi contrasti violenti, nel profondo e repentino cambiamento delle sue condizioni climatiche, nella coesistenza di tutte le sfumature del bello e del brutto, che può diventare protagonista assoluto di tutte le vicende che attraversano l’animo umano. Come ha saputo fare con notevole sensibilità il giovane Alessandro Grande.
Ma questa può essere una grande lezione per Calabria Film Commission, per il suo presidente, Giovanni Minoli, che non è calabrese, ma che ha la cultura per capire che in Calabria non devono finanziarsi prodotti di pubblicità turistica, che non avrebbero il vantaggio di alcuna specificità, rispetto ad altre realtà italiane e straniere più accorsate, ma devono privilegiarsi storie, capaci di suscitare emozioni, che si legano direttamente all’unicità e specialità dei luoghi e del paesaggio calabrese.
Ma questa è anche una grande lezione per la politica calabrese, per le istituzioni regionali che, non contente del disastro del corto di Muccino, si apprestano a dilapidare circa 400 milioni per promuovere la campagna vaccinale anticovid, attraverso filmati, manifesti e parole d’ordine. Un’idea assai discutibile che, ancora una volta, porta in primo piano il modello provinciale, privo di originalità e di inventiva di una classe politica e dirigente, che arriva sempre tardi e per imitazione sulle grandi tematiche sociali e civili e che non riesce ad elaborare un proprio progetto di sviluppo e di cambiamento e, sopratutto, non è riuscita a difendere la propria identità e la ricchezza straordinaria, pur nella sua assoluta diversità, del patrimonio naturale e paesaggistico calabrese.
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