di OSVALDO PASSAFARO
“Koinè diàlektos”: la parola al silenzio, alle soglie dell’esilio.
Nell’ordine delle cose, l’esilio è quasi sempre una previsione “post eventum”, la cui immanenza si coglie all’esito di un susseguirsi di premesse male interpretate. Un’elegia confacente ai ritmi delle perversioni che si cominciano per giuoco, ma che, nel loro perfezionarsi, preludono a tradimenti bensì conoscibili, ove non conosciuti.
Così sfuma questa nostra trascendenza virtuale, nell’esaurirsi di un fascio di luce e amore sotteso ai confini di Dio: al di qua, con pochezza, ne conteggiamo il relativismo in beatitudini pregresse, al di là, sperimentiamo le tenebre di un viaggio “sine fide”.
Allora, si lascia la patria alle spalle quell’ideale dell’io posposto e mai più ritrovato, come profeta che, sprovvisto di una “koinè diàlektos”, non si presta a ragioni di maggiore intelligibilità presso coloro che surrettiziamente lo hanno disarmato: “Tu lascerai ogne cosa diletta/più caramente; e questo è quello strale/che l'arco de lo essilio pria saetta” (Paradiso, Canto XVII, vv.55-57).
Una depressione inguaribile quella di chi non lascia tracce, complice la “weltanschauung” spietata che svela il vecchio che già c’è, nel nuovo che non gli è stato ascritto. Sicché, alla stregua di scia che si dissolve in mare in questo suo ermeneutico arrischiarsi, la parola si infrange sulle inesattezze dell’anima e, in una calda notte d’agosto scandita dalle fiamme di un incendio esistentivo, ti tira fuori quattro schegge, frammenti d’eternità che concorrono a un medesimo disegno: Salvatore Venuto, né finto, né falso; Mariarita Albanese, con occhi protesi allo spirito di bellezza; Aldo Conforto, emozione senza approssimazione; e poi, quella cosa grande di Gigi La Rosa: “un incidente” - lui dice; ma, tanta è la delicatezza con cui anticipa le nostre domande.
L’11 agosto, raccolti sotto il cielo del chiostro del complesso monumentale S. Giovanni, uno dei tre colli di Catanzaro, l’inferno dantesco che, ahimè, avvolgeva questa nostra amata Calabria, con il “Teatro di Calabria - Aroldo Tieri”, sia pure per poche ore lo abbiamo cristallizzato, come cesura nelle nostre menti, auscultando, in quelle persone di cui sopra, una voce che, tra versi e cenere, di un pezzetto di “Paradiso” comunque non ci ha privati.
La traduzione in dialetto calabrese della “Divina Commedia” a cura del compianto Dott. Macrì, il tema della “Bibbia” nell’opera di Chagall, Odysseus, l’antieroe dal multiforme ingegno e l’esilio dantesco come epitaffio tascabile per un vivere all’insegna delle formazioni progressive sono stati solo alcuni dei temi “comuni” a una “lingua” che non parliamo più: quella di un silenzio che si fa contemplazione in forza dello sguardo che risale dalla terra al cielo e, non già, nella caduta libera di occhi vacui che invengono in quel mondo piatto che ci tiene in mano, la temuta “ontologia del telefonino”, con tutte le sue risposte ibernate.
Ma, se al netto di ogni illusione, l’esilio si fa precognizione postuma, la vera musica, allora, è nel silenzio subito dopo l’ultima nota: “koinè diàlektos” per un crocevia di rimandi, ove si incontreranno, lungo distanze soltanto telematicamente ridotte, quelle nostre anime interrotte. “… rimossa ogne menzogna,/tutta tua visïon fa manifesta;/e lascia pur grattar dov’è la rogna.” (ibidem, vv.127-129)".
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