Rita Tulelli: "Burnout: perché siamo sempre stanchi?"

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Rita Tulelli
  15 giugno 2025 11:57

di RITA TULELLI

 "Perché mi sento stanco anche quando non ho fatto quasi niente?" Se te lo sei chiesto almeno una volta  magari tra un esame, uno stage malpagato o una call su Zoomsappi che non sei solo. Sempre più giovani parlano apertamente di burnout, un termine che fino a pochi anni fa sembrava riservato ai manager stressati degli anni ’90, ma che oggi descrive la fatica cronica e il senso di esaurimento che tanti studenti e giovani lavoratori provano quotidianamente. Il burnout non è semplice stanchezza. È una condizione di esaurimento mentale, fisico ed emotivo che nasce da pressioni prolungate e da un sovraccarico di responsabilità. Ti manca la motivazione anche per le cose che prima ti entusiasmavano, ti senti costantemente in ritardo o inadeguato, sei irritabile, ansioso, fai fatica a concentrarti, e la stanchezza non se ne va nemmeno dopo aver dormito. Studiare oggi non significa solo imparare: vuol dire competere, costruirsi un curriculum impeccabile già a vent’anni, imparare tre lingue, acquisire mille soft skill e trovare anche il tempo per fare volontariato. Nel frattempo, l’università incalza con voti, esami, tirocini non retribuiti e genitori che chiedono "quando ti laurei?". Il risultato è che il tempo per riposare, vivere e persino annoiarsi sparisce. Poi entri nel mondo del lavoro e scopri che lo stipendio è basso, le aspettative sono altissime, il confine tra lavoro e vita privata è sempre più sottile, soprattutto con lo smart working, e il contratto è spesso precario. Il mito della produttività a tutti i costi ti fa credere che fermarti significhi fallire. Ma correre sempre non vuol dire andare avanti: spesso significa solo consumarsi. Sui social vedi solo il lato migliore della vita degli altri.

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Chi si laurea con 110 e lode, chi ha già una startup, chi lavora da remoto mentre viaggia in Asia. Questo confronto continuo ti fa sentire in ritardo, anche quando stai dando il massimo. Ma è importante ricordare che ciò che vediamo è solo la superficie: non vediamo la fatica, né il crollo che spesso si nasconde dietro. E allora, come si può reagire? Prima di tutto, bisogna concedersi il permesso di non essere sempre produttivi. Non siamo macchine, e anche le pause sono parte del processo. Bisogna imparare a dire di no, accettare che non possiamo fare tutto e che riconoscere i propri limiti è un atto di forza. È fondamentale cercare supporto, parlare con qualcuno: amici, tutor, psicologi. Sempre più università e aziende offrono sportelli di ascolto. Serve anche togliere pressione al futuro: nessuno ha tutto chiaro a ventidue anni, anche se su LinkedIn può sembrare il contrario.

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Esplorare, sbagliare, ricominciare è del tutto normale. Infine, bisogna staccare davvero. Dormire, leggere per piacere, camminare, spegnere le notifiche: il mondo non crollerà se ti prendi due ore solo per te. Siamo una generazione che ha vissuto crisi economiche, una pandemia, precarietà e una pressione sociale costante. Il burnout non è debolezza, è una risposta umana a un sistema che spesso non lo è. Parlarne è il primo passo. Il secondo è cambiare  cominciando anche da come trattiamo noi stessi.

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