di DOMENICO BILOTTI*
Non può che apparire triste come la Calabria si sia conquistata la ribalta dei telegiornali nazionali per l’imbarazzante querelle relativa alla successione dei suoi commissari regionali alla sanità. All’interno del caotico e continuativo passaggio di consegne provvisorie, due motivi alla base hanno aggiunto scoramento a scoramento. In primo luogo, non c’è stata, se non da parte di pochi e autorevoli spalti, una riflessione sull’eccezionalità (e tuttavia l’inadeguatezza) di una figura commissariale pressoché intesa come permanente, come se non ci fosse via d’uscita alcuna alla gestione dell’emergenza. Un’emergenza, sia ben chiaro, che numeri e prestazioni denunciano da ben prima dell’insorgenza della pandemia da Covid-19 e all’avvenimento della quale aggravatasi da un senso di improvvida salvaguardia dell’ordinario. In secondo luogo, la mentalità per cui un settore critico abbia solo e soltanto bisogno di un reggitore esterno, di un “papa straniero”, che sia uno stimato e assai rigoroso medico e attivista dei diritti umani o l’espressione delle maggioranze governative locali e nazionali, mortifica la semplice possibilità che un giorno o l’altro si possa fare a meno di un vicereame, di un gestore plenipotenziario slegato dalle esigenze e dalle provenienze territoriali. Non è più soltanto questione di nomi, per quanto alcuni siano molto più validi e suggestivi di altri e possano indurre comprensibile senso di sostegno e di partecipazione collettiva.
Chi scrive poi non ama fare riferimento a costruzioni impersonali dell’agire giuridico: parlare di “sanità”, come di “giustizia”, come di “scuola”, troppo spesso nasconde l’incapacità di formulare prospettazioni concrete, di individuare responsabilità (meriti e limiti) personali, di segnare i momenti della vera e della necessaria discontinuità. Quale che sia il futuro dell’indistinto “corpaccione” che ormai appelliamo “sanità calabrese”, ci si impone una considerazione ulteriore. Lo stanziamento in materia di salute non è mai stato irrilevante, nonostante si siano “tagliate” sedi ospedaliere, ritrovati diagnostici e figure professionali. Com’è possibile che il centro di imputazione di una vera e propria economia civile si trovi permanentemente all’asciutto, oltre che indietro sull’erogazione delle prestazioni obbligatorie? Evidentemente il denaro, sciascianamente, dal vertice alla base si disperde in troppi rivoli e all’irrigazione dei campi restano poche gocce, mentre sale la linea della palma del malaffare. Non è peccato invocare una spesa più intelligente, meno clientelare, più operativa. Il dato curioso è che i fautori della razionalità spesso lo divengano quando la ruberia ormai è avvenuta e, invece, i sostenitori della spesa espansiva non s’accorgano che molto, troppo, denaro è sottoutilizzato, male utilizzato, trattenuto in destinazioni che non riguardano l’effettività del diritto alla salute.
Chiunque avrà in mano il dossier calabrese nei prossimi anni dovrà intervenire anche su questo e anche su questo assumersi fortissimamente due direttrici specifiche, messe in mostra dalla crisi sanitaria aggravatasi negli ultimi mesi. Chi ha tempo non aspetti tempo: se c’è la possibilità e la progettualità di avanzare qui e ora nel settore della virologia, delle malattie infettive, della profilassi e della diagnostica sperimentale, si deve procedere. Il mondo globale degli ultimi tre decenni ha propagato più malattie di quanto fosse avvenuto nei tre secoli precedenti. È sincero dire che finora c’è andata bene, ma la necessità di una battaglia curativa di prevenzione, che sappia fronteggiare l’alternarsi dei virus, deve essere combattuta e combattuta in nome dell’eccellenza.
In secondo luogo, e non per ultimo, ci pare necessario ribadire che non c’è però emergenza sufficiente a ritardare la diagnostica ordinaria, a non poter garantire gli esami, gli interventi e i dispositivi che devono accompagnare il trattamento dei pazienti tutti. Non è decoroso che la mancata gestione del dato pandemico interferisca con la cura di patologie gravi, come quelle oncologiche o quelle croniche, che abbisognano di un processo terapeutico costante e ben circostanziato.
Siamo indietro anni luce, probabilmente, ma tornare in asse è fatto non di grandi promesse o di accapigliamenti ideologici esibiti alle vetrine di un bar o sulle bacheche di un social. Il virus avrebbe dovuto proiettarci al futuro: a disinnescare le condizioni per le quali oggi e appena ieri ci si era trovati così impreparati; a non interrompere la continuità assistenziale sanitaria degli altri malati. Abbiamo fallito sui due fronti. Non vorremmo un commissario vita natural durante, a prescindere dall’anagrafe, ma la sensazione è che se ciò deve apparire normale, forse dalla medicina dovremmo passare alla categoria della taumaturgia.
*Docente dell'Università Magna Graecia di Catanzaro
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