Santa Caterina dello Ionio, Scoppa: "Alla prova della rinascita, dal trauma alla catarsi"

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  06 dicembre 2025 16:10

di SANDRO SCOPPA

Ci sono incendi che distruggono e incendi che svelano. Quello che, nel luglio del 1983, ha ferito Santa Caterina dello Ionio appartiene a entrambe le categorie. Le case sono state arse, il cuore antico è stato devastato, ma tra le macerie è nata una domanda che non si poteva ignorare: chi vogliamo essere dopo la distruzione?

In quell’estate rovente, la cittadina aveva davanti a sé lo stesso bivio che, duemila anni prima, si trovarono gli abitanti in occasione dell’incendio di Roma. Nel 64 d.C., il fuoco era divampato per sei giorni, alimentato dal vento e dall’urbanistica irregolare della capitale; le cause sin dall’epoca sono rimaste controverse: alcuni hanno attribuito la responsabilità a speculazioni edilizie, altri a fatalità domestiche, altri ancora – come ripeterà la propaganda – ai cristiani. Tacito descrive così la furia del fuoco: «neque enim domus munimentis saeptae vel templa muris cincta aut quid aliud morae interiacebat. Impetus pervagatum incendium plana primum, deinde in edita adsurgens et rursus inferiora populando anteiit remedia velocitate mali…» (“non c’erano palazzi recintati né templi circondati da mura; l’incendio invase dapprima le zone pianeggianti, poi salì sulle alture e tornò a devastare le parti basse”). L’Urbe ha scelto però di rinascere nello stesso luogo, trasformando le rovine in progetto: non fuga, ma rigenerazione.

Il paese della costa ionica catanzarese, quasi due millenni dopo, ha affrontato un incendio diverso eppure altrettanto spietato. Nel luglio 1983, complice una combinazione letale di vento, temperature elevate e cattiva gestione del territorio, le fiamme hanno divorato il centro storico, distruggendo case antiche, tetti in legno e un tessuto urbano fragile. Le ricostruzioni successive hanno ipotizzato cause accidentali o colpose, legate a incuria e mancanza di manutenzione, senza che nessuna sia stata provata. Eppure, mentre Roma ha scelto di ricostruire dove il fuoco aveva colpito, Santa Caterina ha deciso invece di spostare altrove la propria identità urbana.

In tale ottica, l’insediamento di Maltese è stato la risposta politica e burocratica a quel trauma: edifici isolati, privi di città, storia o radici, collocati nel nulla con la pretesa di “sistemare”, non di rigenerare. Un intervento permanente pensato come soluzione emergenziale, trasformato però in sostituzione della città storica.

Quella scelta, tuttavia, non è stata il frutto improvvisato dell’emergenza: affondava le radici in un’impostazione politica e culturale già consolidata negli anni precedenti. Dal 1978, il Comune era governato da un’Amministrazione di sinistra, guidata da un sindaco comunista, portatrice di una visione politica e urbanistica centralizzata e pianificatoria, che considerava la città come oggetto da progettare dall’alto, più che come organismo sociale da custodire.

Io, allora giovane avvocato, appena rientrato in Calabria dopo la laurea, nato nel paese ionico, dove avevo vissuto gli anni sino alla fine del liceo, guardavo con sgomento la convinzione che la ricostruzione fosse un atto di ingegneria sociale, e non di riparazione di un tessuto umano.

La scelta politica è stata netta, drammatica e irreversibile: non recuperare il centro sventrato, bensì sostituirlo. Non curare le ferite, ma rimuoverle, generando un insediamento progettato senza luogo, senza storia, senza relazioni.

Roma ha fatto il contrario. Nerone, figura ambigua ma capace di visione, ha utilizzato la catastrofe per ripensare la città. Svetonio ricorda che stabilì «ut nova aedificia certis spatiis interponerentur, altitudinis modum haberent, porticusque ad excludendum incendium circumdarentur» (“che i nuovi edifici fossero separati da spazi, avessero un limite di altezza e fossero circondati da portici”). Non era mera ricostruzione: era modernizzazione, una rifondazione che teneva insieme sicurezza, spazio pubblico e urbanità.

Santa Caterina, invece, ha trasformato il trauma in un’espansione artificiale: un insediamento isolato, incapace di generare relazioni urbane, come se la città potesse rinascere lontano da sé stessa.

Quella scelta si è innestata su un precedente errore strategico, anch’esso figlio della medesima stagione politica. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, il nuovo Piano Regolatore aveva infatti deviato la crescita naturale della Marina, allora in pieno sviluppo. Il tracciato originario prevedeva un’espansione verso la pianura e la litoranea: costi contenuti, accessibilità, continuità territoriale, connessione economica. Una traiettoria logica verso Badolato. L’Amministrazione ha imposto, invece, la collina: un territorio instabile, costoso, lontano dai servizi. È nato così il quartiere di Petruso, un aggregato edilizio che non è mai diventato città, un corpo estraneo, un dormitorio privo di vita. Una decisione urbanistica che ha disperso, invece di connettere, costruendo spazi senza generare abitabilità. Impoverito.

La storia successiva è stata chiara. L’insediamento di Maltese, figlio dell’emergenza, non ha trovato comunità. Le case pensate per chi aveva perso tutto sono rimaste senza destinatari effettivi perché la comunità ha scelto di non viverci. Abitare, infatti, non significa occupare un volume: significa riconoscersi in un luogo. E quel sito non è mai stato luogo: è rimasto spazio anonimo, incapace di ospitare appartenenza.

Eppure, il tempo ha concesso redenzione. Oggi, quarant’anni dopo, Santa Caterina guarda a Maltese non come a una reliquia del fallimento, ma come a un patrimonio da ripensare. L’attuale Amministrazione ha scelto di affrontare ciò che per anni è stato eluso: ricostruire procedure, sanare posizioni, definire regole. Non demolire, ma comprendere; non subire, governare. Un passaggio dall’impotenza amministrativa alla responsabilità istituzionale.

In detto contesto, ho avuto il privilegio di contribuire professionalmente a questo percorso: lungo, complesso, fatto di norme, atti, analisi. Ma, finalmente, utile. Il Comune ha deciso che quel patrimonio non sarà più peso morto, diventerà invece un bene restituito alla comunità, con criteri di razionalità, equità e visione. Non per cancellare gli errori, bensì per trasformarli in riscatto.

Le città non muoiono quando bruciano: muoiono quando rinunciano a ricostruire. Maltese non è stato ferito dal fuoco, è stato trafitto dall’illusione che si possa inventare una città senza chi la abita. Oggi, dopo quarant’anni, la comunità ha una possibilità: non creare altrove ciò che manca qui, bensì ritrovare sé stessa. Perché ciò che ha bruciato può diventare cenere; ciò che vive, invece, può tornare città.

 


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