di SERGIO DRAGONE
Una premessa: i 100 film di cui parla Antonio Ludovico nel suo “C’era una volta in Italia” io li ho visti tutti. Una buona parte al cinema, più o meno quelli usciti negli anni Settanta, i più datati in televisione e qualcuno l’ho recuperato sulle piattaforme digitali così generose di pellicole.
Non siamo davanti ad un “Mereghetti de noantri”, un surrogato o un’imitazione del celebre dizionario del cinema che raccoglie migliaia di schede da più di trent’anni. Il “Ludovico” è piuttosto un’antologia nel senso etimologico più stretto, una raccolta di fiori e dunque con una forte connotazione discrezionale. I fiori non possono essere raccolti tutti e ognuno raccoglie quelli che più lo affascinano. E’ questa la filosofia di un lavoro nato nei lunghi mesi del lockdown quando la visione di vecchi film ha rappresentato per molti, me compreso, l’unica difesa contro l’isolamento e la pandemia.
Il cinema, per Ludovico, è uno strumento per scavare nei costumi e nell’evoluzione della società in anni cruciali per il nostro Paese. Dunque non un lavoro di natura enciclopedica (per questo c’è già il Mereghetti), ma un vero e proprio viaggio nell’Italia che prima si è rialzata dalla guerra, poi ha imboccato la strada del boom economico, quindi dell’emancipazione sociale fino a sfiorare gli anni di piombo del terrorismo. Ogni film rappresenta uno step di questo percorso fatto di vittorie e sconfitte, di lotte e di proteste, di denunce e di leggerezze.
Si può dire che il cinema italiano abbia camminato in parallelo con la storia italiana e che in più di un’occasione abbia camminato più avanti, anticipando e orientando costumi, mode, tendenze, passioni. Ci sono i film che hanno fatto epoca, ma soprattutto i film che hanno fatto l’Italia moderna, proponendo modelli e stili di vita assolutamente innovativi.
Ci sono quasi tutti i grandi registi, da Fellini a De Sica, da Monicelli a Petri, da Lizzani a Scola, da Visconti a Wertmuller, da Risi a Salce, da Bellocchio ad Antonioni. Non manca Giuliano Montaldo, che ho avuto l’onore di conoscere personalmente alla Fiera del Libro di Roma, autore di film indimenticabili come “Sacco e Vanzetti” (chi non ricorda “here’ to you, Nicola e Bart” cantata da un’intensa Joan Baez). E quasi tutti i grandi interpreti di un cinema inimitabile: da Sordi a Mastroianni, da Tognazzi a Manfredi, fino ad arrivare ad uno dei miei preferiti, Gian Maria Volontè.
L’autore, mentre era immerso nella ricerca, mi chiese qualche suggerimento e azzardai due titoli meno conosciuti e oggi quasi dimenticati: “Il Commissario Pepe” di Ettore Scola e“Per Grazia Ricevuta” di Nino Manfredi. Mi ha accontentato a metà, inserendo quel piccolo capolavoro di Scola, protagonista Ugo Tognazzi, che scoperchiava l’ipocrisia della cattolica borghesia di provincia (con la celebre battuta “C’è sempre più verità in una lettera anonima che in un proverbio cinese”).
Non è invece entrato nella “top 100” di Ludovico il film del 1971 scritto, diretto e interpretato da un immenso Nino Manfredi, che esplora il delicato conflitto tra educazione religiosa e sessualità (“Viva viva Sant’Eusebio, protettore dell’anima mia”). Ci riproveremo in una seconda edizione di “C’era una volta in Italia”, titolo che ovviamente evoca una delle pellicole iconiche di Sergio Leone.
Leggere il “Ludovico” fa emergere il desiderio di guardare nuovamente queste grandi storie e di perdersi nella grande “fabbrica dei sogni” che è il cinema italiano.
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