di SILVIA MARINO
La Calabria torna al voto. Accompagnata da un sentimento misto di rabbia e rassegnazione. Come se il futuro fosse già scritto, immutabile. Qualunque sia l’esito delle urne, i problemi sembrano destinati a restare lì, intatti, immobili, quasi fossero parte del paesaggio.
Dal 2009 la regione convive con una sanità commissariata, ospedali chiusi e una mobilità sanitaria passiva annua di 300.000 milioni di euro. Da decenni la Calabria assiste alla fuga costante di giovani e famiglie, mentre continua ad ascoltare premesse solenni che si dissolvono in parole vuote.
Questa è la tragedia politica calabrese: una democrazia che non genera più fiducia, una classe dirigente incapace di produrre idee.
Il centrodestra governa come un feudo consolidato, forte di un sistema di potere che resiste a ogni tempesta. Il centrosinistra si limita a fare compromessi al ribasso. Il Partito Democratico, incapace perfino di esprimere un proprio candidato alla presidenza della giunta, mostra la sua crisi più profonda: non seleziona classe dirigente sui territori, non prospetta visioni di società, non ascolta i bisogni di chi dovrebbe rappresentare. Una crisi di radicamento, identità e progetto che va oltre i confini regionali.
Così il voto si trasforma in merce di scambio. In assenza di diritti garantiti, si cercano favori; in assenza di un welfare pubblico efficiente, ci si affida alla benevolenza del potente di turno. Il voto non è più espressione di cittadinanza, ma strumento di sopravvivenza.
La sanità resta il nodo cruciale. E’ il tempo di scelte coraggiose: superare il commissariamento con un piano di rientro realistico, non solo contabile ma di rilancio, varare assunzioni straordinarie di medici e infermieri, investire nelle strutture territoriali (Case della Salute, medicina di prossimità).Questo non è più rinviabile, chiunque sia il vincitore. Tenendo presente, ove ce ne fosse bisogno, che la politica autorevole non opera spoliazioni ma rafforza quanto già presente nei territori garantendo servizi ed equilibrio.
La conseguenza naturale di questa politica senza alternative è la disillusione dei cittadini. Alle ultime regionali ha votato appena il 44% degli aventi diritto. Un dato che mostra come l’astensione non sia soltanto una scelta individuale, ma il segnale della distanza crescente tra la Calabria reale e chi continua a giocare sul suo destino.
La Calabria non è condannata dal destino, ma dalla mediocrità delle sue classi dirigenti.
Serve un atto di rottura, una discontinuità radicale. Bisogna cambiare il modo stesso di pensare la politica. I nuovi eletti - o rieletti - hanno il dovere di non limitarsi a gestire il potere, ma di metterlo al servizio di una visione collettiva di società.
Solo così la partecipazione tornerà ad avere senso.
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